Tra Marina di Massa e il Cinquale, scendendo la costa tirrenica verso la Versilia, si incontrano due centri balneari limitrofi che formano un unico storico insediamento: Ronchi e Poveromo. L’entroterra, ricoperto da una verdeggiante macchia mediterranea, appare squadrato come i castra romani: ma qui la griglia di strade e stradine delimita ordinatamente una settantina di ville, edificate prima e dopo la seconda guerra mondiale, al riparo di siepi, orti, giardini e fresche pinete. Alle spalle, a far da quinta naturale, biancheggiano le Apuane, «i monti più umani del mondo» come scrisse Massimo Bontempelli. Questo tratto di litorale, ancora selvaggio e paludoso alla fine dell’Ottocento, nel giro di qualche decennio divenne meta balneare per toscani e ‘foresti’. Uccelli da richiamo furono all’inizio alcune ‘pioniere’ germaniste, che diedero vita a un’allegra e operosa comunità estiva. A partire dagli anni trenta, fatta salva la tragica parentesi dell’occupazione tedesca, vari artisti, scrittori, giornalisti, politici e intellettuali ‘in villa’ – da Calamandrei ai Longhi – lo elessero a paradiso estivo per i loro ozi ciceroniani. Proprio la moltiplicazione delle ville, divenute nel frattempo patrimonio storico-architettonico ed enclave di memoria culturale (così Silvia Carandini), lo ha in fondo preservato, scongiurando perlomeno le consuete mostruosità edilizie dei geometri. Solo la spiaggia, dalla quale si traguardano appunto le Alpi Apuane, non è rimasta indenne e ormai pullula di stabilimenti per i bagnanti.
Le secolari trasformazioni «dovute alla mano dell’uomo» – come dicevano i vecchi libri di geografia – hanno lasciato una traccia nella toponomastica. «Ronchi» infatti deriverebbe dal latino medievale ‘runcare’ cioè ‘svellere le erbe cattive, sarchiare’. Mentre «Poveromo», chi era costui? Veniva chiamata anticamente in questo modo una selva «paludosa e malarica» dove – registrò Curzio Malaparte scomodando Plutarco – «Annibale si ammalò di perniciosa e perse un occhio»: sarebbe Annibale il pover’uomo! Secondo un’altra ipotesi poi ripresa da Alberto Savinio, si trattava invece del cadavere crivellato di un soldato di Napoleone rinvenuto in un rigagnolo di «acquaccia melmosa». Proprio leggendo le memorie domestiche di Alberto e Ruggero Savinio mi sono imbattuto in questa singolare denominazione che ero già adulto, diciamo per via letteraria; viceversa il toponimo «Ronchi» – anzi i Ronchi (che è anche più chic) – mi è noto praticamente da sempre, avendo contrassegnato una giornata luminosa della mia lontana infanzia.
Ho ricostruito le date, doveva essere un pomeriggio dell’estate 1970. Il maestro Riccardo Malipiero, nipote di Gian Francesco allora ancora in vita, ci accolse cordialmente nella sua villa. Accompagnavamo mia madre che, studentessa dopo sposata (rara avis), stava scrivendo la sua tesi di laurea sulla «passione incompiuta» di Massimo Bontempelli: il Bontempelli compositore e ingegnoso critico musicale. All’inizio degli anni quaranta questi aveva scritto un importante saggio su Gian Francesco Malipiero – modello pianistico per lui, insieme a Casella; Riccardo invece aveva audacemente musicato, di Bontempelli, il dramma fiabesco Minnie la candida. Non saprei proprio come restituire qui lo spaesamento e l’ammirazione provocati dal ‘vuoto interiore’ di quella villa: l’ampio soppalco col pianoforte, aggettante sul soggiorno dove gli adulti tra poco avrebbero iniziato a parlare di Bontempelli, il cui nome del resto era inscritto da mesi nel mio lessico famigliare (girava per casa anche un libretto rosso di Luigi Baldacci). Senza rendermene davvero conto, mi sforzavo di legare la snella e occhialuta figura del maestro a quell’habitat così asimmetrico e insieme accogliente.
Dopo cinquant’anni esatti ho ‘rivisto’ casa Malipiero nelle fotografie – pungenti, almeno per me – di Luca Fregoso: una sorpresa ‘a scoppio ritardato’, perché questo ai Ronchi deve essere stato il suo ultimo lavoro, rimasto purtroppo incompiuto (l’ha completato il promettente figlio Bernardo). Gli era stato commissionato da due architetti di Massa-Carrara, Massimiliano Nocchi e Silvia Nicoli, per un libro che oggi vede la luce: Le ville di Ronchi e Poveromo architetture e società 1900-1970 (testo italiano e inglese, Pacini Editore, pp. 336, s.i.p.). Come suggerisce il sottotitolo, i manufatti superstiti censiti – settantuno in tutto – non vengono raccontati esclusivamente dal punto di vista tecnico, in esterni e in interni; la descrizione si scalda al fuoco della personalità e della storia di coloro che ci hanno vissuto, nello specchio degli avvenimenti ‘esterni’: il ventennio fascista, la resistenza, la liberazione, l’uscita dal tunnel, la ripresa. Certo, non siamo di fronte ad autentiche ‘case della vita’, le abitazioni secondarie essendo di solito prive di arredi pregiati e collezioni (proprio prive? per la verità non sappiamo con certezza, perché manca qui l’occhio del conoscitore che si posi su quadri e mobilia). Tuttavia nonostante le ombre – camicie nere di podestà e altri maggiorenti in villeggiatura ai Ronchi; bivacchi nazisti nelle ville sequestrate dopo l’Otto settembre –, le memorie custodite da queste ‘seconde case’ sono interessanti, rilassate, con punte d’arte e qualche tocco di grazia: lunghe conversazioni, pomeriggi trascorsi a leggere e a scrivere in veranda; allegri convivi, cene all’aperto, serate dall’Ungherese al Cinquale, qualche scappata alla Capannina di Forte dei Marmi. E sempre la vita di campagna prevale sulla spiaggia. Anche se alcune testimonianze erano già note (un tempo la borghesia istruita amava – e sapeva – scrivere), ritrovarle in un nuovo palinsesto dà loro una luce diversa.
Ma in che modo si è sviluppato l’insediamento di Ronchi-Poveromo? Se non suonasse tragicamente ironico si potrebbe rispondere «per contagio». In genere l’idea di rivolgersi a un progettista affermato per realizzare la propria casa in riviera (qualcuno fallì: Carlo Mollino per esempio non persuase Maccari) maturava dopo una o più estati di prova, felicemente trascorse in affitto o come ospiti: soltanto amicizia o, anche, «desiderio mimetico»? Forse entrambi. Comunque lo scopo principale del libro è quello di mettere in valore la funzione calamitante delle ville, sia nella ricezione di un nuovo stile internazionale temperato dal gusto e dalla tradizione italiani, sia nel cementare una variopinta élite intellettuale che si ritrovava puntualmente ogni estate e si riconosceva.
Dopo aver condiviso palmo a palmo l’inchiesta sul campo, i due autori hanno firmato insieme anche la direzione artistica e il progetto grafico del volume, un montaggio di figure e vetrini intorno al testo vero e proprio. Incalzante carosello di immagini seppia, fotocolors, mappe, cartoline, schizzi, ritratti, e poi i disegni tecnici, le piante e i prospetti che una volta venivano fissati con le puntine sul tavolo inclinabile per essere lucidati a china. Nella tasca in fondo c’è una cartina pieghevole ‘vecchio stile’, con la localizzazione sul territorio di tutte le ville e l’attribuzione a ciascuna di esse di un colore-valore. Credo di poter attribuire a Massimiliano Nocchi, invece, il racconto-guida, che ha alle spalle ricerche in archivio (catasto, biblioteche, emeroteche), ‘letteratura locale’ e memorialistica (biografie, diari): quest’ultima aggiornata con apposite interviste ai figli, ai nipoti e agli eredi dei primi proprietari. Ne risulta un testo fitto di Realien, con qualche svista da emendare, per esempio nelle citazioni: il titolo dell’albo a fumetti di Crepax, i nomi tedeschi…
Proprio il versante tedesco, lo si accennava, è il punto di avvio della storia. A partire dal 1923 Lavinia Mazzucchetti, «la donna che “contrabbandò” Thomas Mann in Italia» come ha efficacemente sintetizzato Enzo Collotti, scoprì la riviera apuana prendendo a pigione una stanza senz’acqua corrente alla Casina rossa, e attirando anno dopo anno le colleghe (Lucia Paparella, Barbara Allason, Dora Mitzky) e gli amici: lo psichiatra Eugenio Medea, Filippo Sacchi, antifascista, inviato speciale del Corriere della Sera. La realizzazione di un grande viale parallelo alla costa e di strade carrozzabili accelera lo sviluppo. Nel 1928 apre i battenti Villa Irene, casa-albergo per villeggianti dalla Germania, dall’Austria e dalla Polonia (tra l’estate e l’autunno del ’32 vi soggiorna anche Walter Benjamin). Negli anni sessanta nuovi padiglioni progettati da Lorenzo Moser accolgono scrittori, imprenditori, musicisti, registi: c’è Silone, c’è Adriano Olivetti.
Questa stratificazione di edifici promossa da un’intellighenzia facoltosa è anche un significativo capitolo della storia dell’architettura litoranea. Dopo una prima fase «eclettica» (villa dei Ruffo di Calabria a Poveromo, 1929: la bambina è la futura regina del Belgio), la svolta stilistica si registra dalla metà degli anni trenta con i progetti di Tomaso Buzzi ed Enrico Galassi. Alcuni dei loro interventi sono stati rivisitati da Luca Fregoso nell’«atlante» a colori: villa Medea detta La Campana; casa Kechler con l’invenzione della scala elicoidale interna (ai piedi della quale – sono certo – il cavalletto di Luca avrà sostato a lungo); casa Savinio: «la mia casa Galassi l’ha disegnata a forma del più casalingo degli animali: a chiocciola» scriverà l’artista. Anche qui, una trovata. A Ibiza c’era la consuetudine di edificare muri in prossimità delle abitazioni per proteggerle «dai grandi venti del largo». Galassi decise di importare dalle Baleari «nella mite foresta del Poveromo» questo elemento, svuotandolo della funzione originaria e facendone quasi un décor: «Davanti alla mia casa – prosegue Savinio – ha alzato ugualmente un gran muro pieno e curvato a S, e questo muro, nonché guardarmi dai grandi venti metafisici, segna perentoriamente la lettera iniziale del mio nome».
Nel 1939, in faccia al viale litoraneo ma dietro la cortina di una folta pineta, si inaugura la casa di Ada e Piero Calamandrei, ritrovo prediletto di antifascisti. In una lettera a Pietro Pancrazi lo statista fiorentino magnifica il grande studio finestrato – dove scrisse anche l’Inventario della casa di campagna – che alle cinque del pomeriggio si trasforma in sala-riunioni del Partito d’Azione: «Lo studio aereo dal quale ora ti scrivo avendo dinanzi il quadro delle Apuane (…) è riuscito perfetto: Russo me lo riempie giornalmente colle sue squillanti risate» (Luigi Russo, lo storico della letteratura sotto la cui lente – non sempre accettabile – leggevamo Manzoni al ginnasio).
Sull’onda emotiva sollevata dai passi di Savinio e Calamandrei ho tirato giù dallo scaffale uno dei diari di Elena Carandini Albertini: ecco un paio di schegge estive. La prima è del 21 luglio 1948, pochi giorni dopo l’attentato a Togliatti: «Rieccomi al tavolone sotto la pergola ronchesina. Giunti l’altro ieri. Sosta a Pisa e riveduto il martoriato Camposanto in cui l’incendio, seguito ad uno dei bombardamenti, s’è mangiato gli affreschi del Gozzoli (…) Cantano le cicale. Ho appena letto la loro riabilitazione nel vecchio Fabre che zio Piero m’aveva fatto amare (…) Vorrei saper dire di questo posto a noi sempre caro e necessario. Le mattine verdi della pineta e gli azzurri di mare e cielo, di Apuane che si sollevano maestosamente aeree quando il sole si ritira…». 24 luglio: «L’aria si muove dolcemente sotto il tetto di glicine della pergola, portandomi vari profumi: l’incenso dei pini che il sole riscalda, il dolce-speziato alito di petunie e verbene e gerani, l’odore dei vari verdi delle siepi che mi cingono e mi nascondono. (…) Abbiamo a colazione Carlo e Valentina Sforza, carissimi in quest’ultima edizione di vicini di campagna…». Il conte Sforza, Ministro degli Esteri, e la moglie, acquistarono per tredici milioni di lire la casa dei Longhi; però – annota la Carandini – «paiono un po’ delusi…». È una storia divertente. La Turchina – così si chiamava per il colore acceso delle persiane –, Longhi l’aveva comprata nel 1932. Devastata dai tedeschi, fu infine costretto a venderla agli Sforza per pagare i debiti di gioco, ma questo nei libri non c’è. A me lo ha riferito un salace allievo del professore, Alvar González-Palacios, che da ragazzo ebbe modo di frequentare una successiva casa dei Longhi, il Cancello rosso in via delle Foglie, dove molte estati dopo si sarebbe spenta Anna Banti.
A partire dagli anni cinquanta lascia le sue impronte sulla riviera apuana una nuova schiera di architetti: Ignazio Gardella, Pietro Porcinai, Maurizio Tempestini, Roberto Menghi, Alberto Mazzoni, Remo Nocchi, Aldo Rossi, Leonardo Ferrari. Anche i libri degli ospiti ‘cantano’: quello della Nuova Pergola, la pensione-trattoria più frequentata, custodisce tra gli altri gli autografi di Berenson, Montale, Carrà, Bompiani, Moravia, la Maraini, Ottieri, Citati, Guttuso, Maccari; mentre a casa Mazzoni transitarono Ungaretti, Evtuschenko, Eduardo de Filippo, Gassman, la Fracci. Non potendo dare conto qui di tutte, pesco dal mazzo due ville ‘musicali’ degli anni sessanta: «La Greghina» di Riccardo Malipiero, dal nome della moglie la pianista Nellie Grego; e quella del violoncellista Gilberto Crepax, in via dei Fortini. Della prima, disegnata da Enrico «Aurél» Peressutti (di BBPR), ho già detto: non ricordavo però il soffitto a righe bianche e marroni, invece mi si erano stampate in testa le finestre una diversa dall’altra sulla facciata da casale toscano, e tutt’intorno sfumature di verdi come una scatola di pastelli nuovi. Casa Crepax, con tetto a falde e timpano che anticipa la stagione citazionista, è indirettamente all’origine di uno «speciale» di Valentina – il personaggio a fumetti inventato dal figlio Guido. L’estate 1968, non essendo ancora pronta la nuova abitazione progettata da Ferrari (scuola-Gardella), i Crepax decidono di affittare la Casina Rossa a via delle Vigne: l’anno dopo la Casina Rossa finisce in una strana storia robotica ambienta ai Ronchi, La Marianna la va in campagna. Così la sensualità allucinata e onirica di una donna di carta (Valentina-Marianna) chiude il ventaglio generazionale aperto da Lavinia, la germanista invisa al regime che fece conoscere in Italia Thomas Mann.
Scriveva Gio Ponti nel manifesto della «casa all’italiana» pubblicato su «Domus» del gennaio 1928 (opportunamente riproposto da Nocchi&Nicoli): il «comfort … è nel darci con l’architettura una misura per i nostri stessi pensieri, … una salute per i nostri costumi, nel darci con la sua larga accoglienza il senso di una vita confidente e numerosa, ed è infine, per quel suo facile e lieto e ornato aprirsi fuori e comunicare con la natura, nell’invito che la casa all’italiana offre al nostro spirito di ricrearsi in riposanti visioni di pace, nel che consiste nel pieno senso della parola italiana, il conforto». Dopotutto nessuno dei progettisti che hanno lasciato il segno ai Ronchi sembra aver disatteso questa leggerezza.