Si respira la bellezza dello spazio, la brezza leggera di una notte di fine estate, camminando verso l’alto della grande Cavea all’aperto dell’Auditorium Parco della Musica di Roma. È la serata inaugurale della XXXV edizione del RomaEuropa Festival affidata a un’artista cara negli anni alla manifestazione diretta da Fabrizio Grifasi: Sasha Waltz, al REf per la sesta volta nella sua storia. Lo spettacolo in prima assoluta, in scena ancora stasera, è Dialoge Roma 2020 – Terra Sacra, produzione ideata da Waltz per lo spazio all’aperto disegnato da Renzo Piano.

UN LUOGO la cui distesa circolarità, ideale anche per l’obbligato distanziamento tra i corpi, contiene in un unico largo abbraccio gli spettatori e la danza. ConTatto – un gesto per il presente, non a caso, è il titolo del REf 2020, fare abitare la Cavea dalla danza è una scelta vincente. La passeggiata in morbida salita verso il culmine delle gradinate svela di passo in passo singoli danzatori della Sasha Waltz & Guests: una ragazza sorride dietro una parete trasparente, un altro duetta con una nuvola di plastica tirata fuori da un cestino, più in alto un danzatore proietta la sua ombra sul muro esterno dell’Auditorium rivelandosi anche a chi sta già scendendo tra gli spalti. È il Parcour, prima tappa del Dialoge, un formato performativo di conversazione con i luoghi che da 27 anni Waltz sviluppa con l’architettura: già successe al MAXXI di Roma con Dialoge 09, alla cui memoria è stato dedicato un film. È sul suono teso, a tratti stridente, di Negative Ghostrider di Ben Frost, compositore chiave della sperimentazione elettronica ospitato in passato più volte dal festival RomaEuropa, che Sasha Waltz prosegue nel suo Dialoge 2020: i danzatori ora sono in piedi, sul bordo più alto della cavea e delle torri laterali.

CON I LORO corpi segnano, eroici custodi dello spazio, il limen teatrale, una «terra sacra», dove stare finalmente insieme, pubblico e danzatori. Classici port de bras aprono con tocco quasi apollineo il movimento che poi si apre a forme più libere tra cielo e architettura. Come laici angeli protettori i danzatori corrono sul bordo alto della cavea prima di scendere ai lati per le scale e guidare lo sguardo sulla scena.
Lì c’è un uomo, Edivaldo Ernesto. Sasha gli ha affidato I can’t breathe sull’omonimo solo di tromba composto da Georg Friedrich Haas nel 2014 per Eric Garner, l’afroamerican di Staten Island soffocato e ucciso da un agente di polizia. Una musica umana come un pianto che ci ricorda le ultime morti contro cui combatte il Black Lives Matter. È un assolo di forza e rivolta, in cui svetta la capacità di raccontare attraverso il segno coreografico. La «terra» del titolo è qui un danzare in tragica conversazione con la gravità, qualcosa che ha che fare con la qualità del movimento, ma anche con il peso della vita, con una forza oscura che trascina verso la morte. Le gambe del danzatore stanno in una seconda posizione schiacciata perdutamente verso il basso, il corpo è contratto, le braccia tese scagliano pugni, le mani cercano di afferrare qualcosa che la vita nega. Una lotta furibonda, nella vertigine della caduta, un respiro brutalmente impedito. Riempie lo spazio.
Il rapporto con la terra è di nuovo protagonista con Sacre, la versione di Waltz del capolavoro di Stravinskij, Le Sacre du Printemps. La coreografa tedesca lo aveva affrontato nel 2013, nel centenario del balletto di Nijinskij. Per Dialoge 2020 Waltz ha scardinato il rapporto tra i corpi che, come impone la pandemia, mai si toccano. Maschi e femmine, brutalizzati da un rito di fertilità che non ha nemmeno la catarsi dell’amplesso (si pensi a Le Sacre di Pina Bausch e anche di Béjart). In Waltz l’eletta finisce nuda dopo avere indossato come in Bausch una veste rossa, ma è una reietta, un corpo da distanziare, infetto da un sacrificio che non porta a nulla. Lascia attoniti. Sensazione nota in questo maledetto anno.

RISCOSSA di speranza con un’altra partitura chiave di primo Novecento, il Boléro di Ravel, di cui Waltz rivela con guizzo inedito la possibile freschezza. Il ritmo incalzante della partitura scorre nella danza tra gruppi che si formano e si sciolgono, tra soli, duetti. Un’unica coppia maschile, congiunta, apre il pezzo in un passo a due di contatto, il resto è ancora una volta senza tocco tra i corpi, ma la relazione tra le persone viaggia fulminante e allegra nel gioco ritmico di teste, ginocchia, braccia, gambe, nel bellissimo intreccio delle linee la cui geometria è lampante dalla cavea. È un Boléro di gioia, nel segno della danza, della coreografia. E il pubblico apprezza l’inaugurazione di un festival il cui fitto cartellone prosegue fino al 15 novembre.