Un temporale. E un’indignazione selettiva, con la sociologia di massa che si è attivata con un clic. Sentenze passate in giudicato dalle prime ore post Napoli-Inter, quarti di finale di Coppa Italia, per tutta la giornata di ieri. Tweet, post su Facebook, allertati i media mainstream, al centro di tutto la parola omosessuale, anzi «frocio» o «finocchio», l’offesa declinata in modo volgare e rozzo da Maurizio Sarri a Roberto Mancini. A colpi di hashtag o di post, tra un commento in radio e in tv – tutto è cominciato su Raisport, a pochi secondi dal fischio finale -, c’è stata la corsa a prendere posizioni.

Colpevolisti, vittimisti, l’effetto ventilatore è ancora in azione, per un dibattito degno di alcuni interventi sul tema delle unioni civili in Parlamento che pure sta facendo fare bella figura all’Italia sulle copertine internazionali. Sono intervenuti una parte delle istituzioni dello sport italiano, tecnici, dirigenti, sociologi, massmediologi, tifosi doc. Senza dimenticare la stampa internazionale, perché all’estero non ci si tira indietro, se si può spandere un po’ di guano sul calcio italiano.

Solo il Napoli non ha preso una posizione ufficiale, Aurelio De Laurentiis non ha difeso pubblicamente il tecnico che ha portato la squadra in vetta al campionato, forse in attesa della decisione del giudice sportivo (La Gazzetta dello Sport preannunciava ieri uno-due turni di squalifica), che arriva oggi. E non è arrivata nessuna condanna dal numero uno della Federcalcio Carlo Tavecchio. Ma sarebbe stato francamente troppo, dopo le uscite su Optì Pobà e sulle «quattro lesbiche» del calcio femminile.

«Sarri si è scusato ma non capisco e non posso condividere la sua spiegazione sulle frasi pronunciate in campo» ha detto il presidente del Coni Giovanni Malagò, aggiungendo di augurarsi una stretta di mano tra Sarri e Mancini. Mentre Renzo Ulivieri, presidente Assoallenatori, si è detto convinto che Sarri non sia razzista, così come è difficile codificare la reazione di Mancini, che non ha accettato le scuse del tecnico del Napoli andando a confessarsi davanti alle telecamere Rai. L’Arcigay ha stigmatizzato l’uscita dell’allenatore e lo stesso ha fatto via twitter il sottosegretario alle Riforme Ivan Scalfarotto. La condanna per Sarri è unanime, lo schieramento di guelfi e ghibellini un male ormai quasi indispensabile, in questi casi.

Il tecnico azzurro ha avuto l’umiltà di scusarsi quasi subito, la sua favola si macchia con la sottocultura del nostro calcio, microcosmo machista che cade ogni settimana, in ogni categoria, in espressione sessiste. Ma pure Mancini è espressione del pallone italiano, non è ora, come hanno scritto e detto in tv alcuni, il paladino dei diritti omosessuali. Anche lui bollava come “sfottò” i ripetuti e offensivi cori della curva di una delle sue squadre all’indirizzo dei tifosi del Napoli (l’ormai mainstream «Vesuvio lavali col fuoco») ed era sulla panchina della Lazio, 15 anni fa, contro l’Arsenal: sulle frasi razziste da Sinisa Mihajlovic a Patrick Vieira, l’attuale tecnico dell’Inter spiegava che in campo può accadere di tutto, l’importante è chiudere tutto lì. Lo stesso concetto espresso da Sarri, due sere fa. Magari non è omofobia, ma provoca la stessa sensazione di impotenza di fronte alla poca tolleranza, educazione e cultura.

L’omosessualità come insulto, un vizio del calcio, più che dello sport italiano. Scandali come Scommessopoli, razzismo sugli spalti, il potere degli ultras, denunciato pochi giorni fa da Gianpiero Gasperini, tecnico del Genoa. E non è un caso se ancora deve saltar fuori un omosessuale nel calcio italiano. Nessuno ha il coraggio di farsi avanti, certo di ritrovarsi offeso puntualmente dalla curva della prossima squadra affrontata in campo. E così nel resto d’Europa. Negli Stati Uniti l’ha fatto Robbie Rogers, difensore dei Los Angeles Galaxy nella Major League Soccer, tre anni fa. E poco dopo di lui è arrivato Jason Collins, veterano Nba che si dichiarava gay sulla cover di Sports Illustrated. E poi, coming out nella Nfl, nel football a livello collegiale, sino a un flusso di confessioni tra atleti, tecnici, dirigenti, con le Leghe che hanno cominciato ad aprirsi a tecnici e arbitri femminili. Un primo passo verso la tutela della dignità sessuale in un Paese dove è ancora forte la discriminazione razziale e sessuale.

Dove il patron di una franchigia Nba, Donald Sterling dei Los Angeles Clippers, è stato di fatto costretto dalla Lega a cedere la società, intercettato in una conversazione privata con la fidanzata a offendere i tifosi afroamericani che andavano al palazzetto per la partita.