L’ultima è Coco Gauff, il nuovo volto del tennis femminile, erede di Serena Williams anche nella lotta contro le violenze sulla comunità afroamericana. «Sarò la prossima? Quando finirà tutto questo – chiede la giovane tennista su Instagram – quando verremo visti come essere umani e non minacce?».

Avvolta in una felpa nera con cappuccio, Gauff, come Stephen Jackson, ex stella Nba e amico d’infanzia di George Floyd, che al municipio di Minneapolis ha commemorato il 46enne afroamericano soffocato a morte dal poliziotto, arrestato e a rischio condanna di 25 anni per omicidio preterintenzionale.

L’assurda morte di Floyd sta rovesciando come un calzino gli Usa. Roghi e manifestazioni nella capitale del Minnesota e in altre città americane, candelotti di dinamite pronti a esplodere.

La sopraffazione ai danni dei neri è incisa sulla pelle dei campioni dello sport, soprattutto afroamericani, che da anni manifestano via dai social, da un palco, da un microfono rabbia e disgusto per le ripetute violenze.

Per esempio, Colin Kaepernick, ex lanciatore dei San Francisco 49ers (Nfl) che si trova senza squadra da oltre tre anni perché nel 2016 si è inginocchiato durante l’esecuzione dell’inno nazionale pre gara in segno di protesta contro le violenze della polizia sui neri – provocando le ire di Trump che gli ha scatenato contro una campagna mediatica -, ha deciso di offrire assistenza legale ai manifestanti di Minneapolis, attraverso la sua associazione Know Your Rights.

Mentre Lebron James, la stella Nba cresciuta in un ghetto di Akron, Ohio, che ha fatto costruire scuole a sue spese per garantire un’educazione anche ai bambini di famiglie disagiate e in contrasto alle politiche di Trump verso le minoranze, ha piazzato sui social una collage con l’immagine di Kaepernick inginocchiato in campo associata a quella del poliziotto che ha ucciso Floyd a Minneapolis, con la frase Ecco perché.

E un ex compagno di James ai Miami Heat, Ray Allen, in un Instagram Stories ha ricordato la frase I can’t’ breathe, pronunciata da Floyd prima di spirare. La stessa frase comparsa sei anni fa sulla maglietta pre partita di diversi atleti della Nba (compreso Lebron James) per l’uccisione di Eric Garner, un altro afroamericano soffocato fino alla morte da un agente di polizia durante l’arresto.

E altri cestisti, come Donovan Mitchell (Utah Jazz) hanno riproposto le parole dell’attore Will Smith, secondo cui il razzismo negli Usa non sta peggiorando: ora viene solo filmato.

Mentre Steve Kerr, allenatore dei Golden State Warriors (Nba), figlio di un ambasciatore americano ucciso in Libano negli anni ‘80, partecipando al dolore per l’assassinio di Floyd si è schierato ancora una volta contro Trump: «Ha definito figli di puttana i giocatori della Nfl in ginocchio per la brutalità della polizia e criminali i manifestanti di Minneapolis. Questo è il motivo per cui ai razzisti non dovrebbe essere permesso di essere presidenti».

Il grido contro il razzismo però stavolta è così forte da mettere in campo assieme su Twitter anche le due potenze dell’industria degli articoli sportivi, Nike e Adidas. «Just don’t Do It (per una volta, non farlo, che richiama il celebre mantra Just do it) non fingere che non esista un problema in America. Non voltare le spalle davanti al razzismo. Non accettare che vite innocenti ci vengano strappate. Non usare altre scuse. Non pensare che questo non ti riguardi. Non restare seduto in silenzio. Facciamo tutti parte del cambiamento», il messaggio della multinazionale americana, apprezzato e rigirato anche dal colosso tedesco.