Mantello di seta taffeta e satin, modello per il ritratto di Lady Sassoon realizzato da Sargent nel 1907 © Houghton Hall; Boston Museum of Fine Arts

«The coat is the picture» è la celebre esortazione con cui John Singer Sargent, il seducente pittore americano, avrebbe convinto W. Graham Robertson, efebico illustratore di libri per l’infanzia, a posare, in piena estate, con un lungo soprabito Chesterfield; e cioè con indosso una corazza destinata a rivestirne l’ambiguo dandysmo, offrendogli un veicolo sociale necessario a ovattare il pallore liliaceo del volto, le precoci occhiaie, la screanzata ennui de vivre spartita col buffo cagnolone ansimante ai suoi piedi, in soffice contrasto con le scarpe scure di vernice.
Allo zenith della fama, l’artista componeva un personale Ranuccio Farnese, seguendo la lezione di Tiziano nel contrastare il volto imberbe, docile del soggetto con una divisa mascolina, troppo pesante su spalle gracili: rifronteggiava così il dilemma, insieme estetico e morale, al centro della sua carriera di stimato, intenso ritrattista, fra i più carezzati dall’high society occidentale nel passaggio critico dall’Otto al Novecento.
Ben lo dimostra l’esposizione allestita alla Tate Britain Sargent and Fashion – a cura di Erica E. Hirshler, proveniente da Boston e aperta fino al 7 luglio –, che costruisce un percorso di colta civetteria grazie a una scelta sapida di icone importanti fra quelle consegnate da Sargent al jet set internazionale: vi associa infatti un’acuta riflessione sulle mises, gli abiti e le tolette descritti in ciascuna tela, col loro frusciare di sete leggere, il croccare di frusti broccati e l’éclat sonoro dei neri fondi, dei bianchi impeccabili, degli ori squillanti e dei carnicini maturati in toni ciliegia.
Al centro, inevitabilmente, un capolavoro, discusso e indiscusso, come la figura intera, snella e flessuosa, di Madame Pierre Gautreau, violetta quanto il siero di cipria e lavanda usato dalla donna, nella vita fuori dal quadro, per detergere e curare la propria pelle candida. Un succès de scandale mal accolto al Salon parigino del 1884 e destinato a imporsi sulla carriera del pittore, spingendolo ad abbandonare la Francia; ma pure un’effigie in grado di alludere, dietro il mistero banale di un titolo enigmistico (il «postumo» Madame X), al ben più intricato dilemma che dovette perseguitare Sargent nell’imbastire per sé e per i propri committenti un’apparenza à la mode e tuttavia solenne, nel coordinare insomma le mire sociali dei ritrattati col suo stesso desiderio di affermazione, di laureata grandeur.
L’opera, oggi al Metropolitan, non venne soltanto vivisezionata da sguardi pruriginosi al momento della sua prima esibizione, sul palco affollato e ultracritico della rassegna annuale organizzata nella capitale francese; essa fu anche al centro di un duro rovello nella stessa riflessione dell’artista, decisosi in ultimo a emendarne il dettaglio giudicato dal pubblico più scandaloso, e cioè una delle spalline brillanti lasciata cadere sotto l’omero, nel tentativo di restituire decenza a quell’immagine metaforica che aveva trasformato una milionaria della Louisiana in moderna, bizzarra dea cacciatrice.
Tale intervento, senza dubbio doloroso ma motivato dal pittore col desiderio di un’eletta decantazione compositiva (in sua difesa e in prima istanza, aveva affermato d’aver dipinto la mondanissima socialite «exactly as she was dressed»), fa il paio con l’anonimato che si lega all’abito scelto per le pose: un lungo da gran sera, certo caro a entrambi, ma che le cronache e i documenti associano piuttosto alla sorpresa di vederlo indossato «sans chemise», reticenti sull’identità del couturier cui riferirne la paternità.
E sì che Madame Gautreau sarebbe stata celebrata dal frivolo Gabriel-Louis Pringué come un’«invenzione» della Maison Félix, la nota sartoria presso cui soleva rifornirsi fra le molte aperte a Parigi, segnalate persino dai Baedeker. Tuttavia, i saggi in catalogo di Richard Ormond e Erica E. Hirshler riassumono, nelle forme di una leggenda risaputa, proprio l’intransigenza dimostrata da Sargent nel rifiutare creazioni d’haute couture, approntate espressamente per servire alle sue tele; ostinazione sempre unita alla durata fiaccante delle sedute e alla rapace perspicacia del suo sguardo aguzzo. Quasi che questi intendesse innanzitutto evitare l’accusa di recente messa nero su bianco da un critico caustico quanto Joris-Karl Huysmans, nel definire «peintres-couturiers» alcuni nomi presenti al Salon del 1879 (più o meno nel tempo in cui lo stilista pioniere Charles Frederik Worth aveva preso a dichiararsi un «artista» del fascino femminile).
Si tratta di forme di snobismo assai vieillottes che, ben oltre le critiche mosse dagli oriundi a Madame X, potrebbero giustificare la frattura di Sargent con la società parigina, motivandone insieme il rifugio in una galleria forbita di Old Masters presi a modello, per così dire sartoriale, secondo un olimpo inaugurato da un hidalgo come Velázquez, e poi inclusivo, in rapida sequenza, del sobrio esempio di Frans Hals e del decentissimo conversare gainsboroughiano.
Non a caso, uno scavezzacollo della fatta di Giovanni Boldini, convertitosi dalla bohème rustica di Castiglioncello ai lussi inattesi di Boulevard Berthier (strada in cui, al 43, gli sarebbe toccato l’atelier del collega, dopo la fuga di questi alla volta di Londra), stava coinvolgendo le case sartoriali in un rapporto ben più spregiudicato che, con la presenza sulla rivista «Les Modes» e nella sala d’esposizione a essa connessa (piena d’abiti e dipinti all’ultimo grido), avrebbe in fondo anticipato le audacie di un Cocteau o di un Dalì al servizio dell’avanguardia di Elsa Schiaparelli.
Conquistando le copertine delle riviste patinate, il ferrarese avrebbe infatti intuito quanto gli interessi dei sarti di maggior fama coincidessero in fondo coi suoi propri, e non solo nel virtuoso circolo di un comune guadagno, di un rialzo delle reciproche azioni nei listini instabili delle borse salottiere. Per Boldini, il dialogo con Doucet o Paquin nelle sale dell’Hôtel des Modes (in cui avrebbero stabilmente troneggiato i suoi ritratti di Marthe Régnier e Mademoiselle Lanthelme), serviva anche a verificare la condivisa consentaneità a un «esprit de l’époque», che compendiava le smanie di un’intera stagione, unendo Baudelaire au côté de chez Swann.
Di fronte a una tanto sprezzata attitudine reclamistica, in grado di circoscrivere una nuova idea di glamour e un’inedita immagine autoriale (ben illustrate dalla mostra del 2019, curata da Barbara Guidi a Palazzo dei Diamanti, Boldini e la moda), il divino riserbo di Sargent ha il sentore, certo austero ma in fondo inattuale, del Museo. In quest’ottica, la più emblematica immagine dell’intera esposizione alla Tate è forse il frammento di tessuto conservato religiosamente da Mrs. Hammersley (e poi passato come eredità alla sorella) in ricordo delle ore trascorse di fronte al pittore, in posa per il proprio ritratto, oggi a New York, quasi un monocromo purpureo: resto sacro, una reliquia «per contatto» che eternando la presenza stessa di Sargent, la sua aureolata autorevolezza, lo sottrae però al flusso ruscellante del tempo moderno, quello istantaneo, spartito dalla moda e dalle silhouettes impalpabili di Boldini, un pittore aduso agli scandali e al logorio incessante degli anni, dei mesi, dei giorni, dei singoli istanti.