«È un’opportunità per non proseguire nella più frequentemente adottata censoria latenza che, forse, ha significato anche diffusa incapacità di elaborazione del trauma e un’acritica rimozione di fattori ereditari che hanno fatto perdere di vista pure la possibilità di una più autentica coscienza europea in riferimento all’idea di modernità».
Una mostra in due sedi come quella dedicata a Margherita Sarfatti (1880-1961) da istituzioni italiane di primo piano, il Mart di Rovereto – in incipit, il direttore Gianfranco Maraniello – e il Museo del ’900 di Milano, ha il suo primo calibro d’interesse proprio nell’opportunità e necessità del tema che affronta. In gioco c’è la stessa funzione del Museo, se non, addirittura, la supremazia dell’arte sulle sue intenzioni. Raccontare la vicenda umana e culturale della fondatrice del movimento «Novecento» significa fare i conti con la sua relazione, anche sentimentale, con Benito Mussolini, attestare l’adesione, più o meno partecipata, dei singoli artisti al fascismo e soppesare caratteri e rischi di una matrice nazionalistica che guarda al passato. Nell’avvicinarci al centenario di distanza dagli anni considerati in mostra, ci si prepara a testare, inevitabilmente, quanta ideologia sia decantata sotto i ponti, decennio dopo decennio, rafforzando il sentimento di necessità di difendere le verità storiche, ricercandole senza sosta, nel collettivo appannarsi della memoria, che accomuna non solo le ultimissime generazioni.
Una ricca famiglia ebraica
Non capita spesso di vedere una mostra ideata in due sedi, in città distanti centinaia di chilometri, ma il tema chiamava in causa direttamente i due musei, che possiedono alcune delle più importanti opere degli artisti che la Sarfatti promosse con la sua militanza critica, oltre che unici fondi documentari, la sua biblioteca d’arte e l’archivio personale. A Milano ci si concentra, così, sulle mostre nazionali e a Rovereto sulle numerose promosse all’estero dall’attività febbrile dell’ideologa.
La vita della Sarfatti ha tutti gli elementi utili a una fiction in due puntate su Rai 1. Figlia di una ricca famiglia ebraica veneziana, grazie alla quale poté frequentare personalità come D’Annunzio o Fogazzaro, Margherita Grassini non manca di distinguersi per intelligenza e conoscenza delle lingue fin dalla tenera età. Ebrea, non praticante, si converte al cattolicesimo, sposando a 18 anni l’avvocato Cesare Sarfatti, da cui attinge cognome e sostegno necessari per far fronte a una vita in cui non mancarono profondi nodi di sofferenza: dal suicidio della sorella, alla morte del figlio diciassettenne, partito volontario e ucciso sull’altopiano di Asiago (1918), fino all’esilio volontario in Brasile nel 1938 per la promulgazione delle leggi razziali, e alla morte ad Auschwitz di un’altra sorella.
L’arrivo a Milano, nel 1902, coincide con l’avvio della sua collaborazione con la rivista diretta da Ersilia Bronzini «L’Unione femminile», impegno reiterato dieci dopo, con il sostegno a «La difesa delle lavoratrici», periodico fondato e diretto da Anna Kuliscioff. Il 1912 è l’anno del cortocircuito emotivo-culturale più importante della sua vita. Incontrato nella redazione de «l’Avanti!», per cui la Sarfatti curava la rubrica d’arte e di cui lui sarebbe diventato a breve il direttore, Benito Mussolini fu suo compagno di lotta socialista prima, amante poi ed errore da ripudiare, in fine. Spetta alla Sarfatti, del resto, la stesura di uno dei tasselli fondamentali dell’agiografia mussoliniana, la biografia Dux, pubblicata in prima battuta in inglese (1925), ma anche un più articolato sostegno alla propaganda della figura del dittatore all’estero. La funzione aggregatrice da cui nacque «Novecento» ebbe il suo epicentro nel salotto Sarfatti, diventato, in breve tempo, snodo chiave per la cultura, non solo di regime, a Milano, frequentato dai futuristi come da Medardo Rosso o Arturo Martini. La Sarfatti diventò una delle donne più influenti della cultura italiana e, l’elenco delle personalità di cui incrociò destini e culture si allunga da Guglielmo Marconi ad Ada Negri, passando per Coco Chanel, Elsa Schiaparelli, André Chastel o Bernard Berenson. Una storia di passione e successo che, come spesso accade, si bruciò in pochi anni.
La promozione artistica operata dalla Sarfatti si organizzò a tappe serrate; con i propri articoli portò alla ribalta nazionale il gruppo che si stava coagulando a Milano e configurando nella sua idea critica come il nuovo volto della pittura italiana. Sono gli anni in cui si consolidano le dinamiche del moderno «sistema dell’arte» che vede coinvolti critici, galleristi, artisti, pubblico borghese e giornalisti.
In un articolo del 1922 la Sarfatti annuncia il gruppo «Novecento» e i nomi sono quelli di Mario Sironi, Anselmo Bucci, Leonardo Dudreville, Piero Marussig, Achille Funi, Emilio Malerba e Ubaldo Oppi, «quasi tutti i migliori, insomma, del manipolo di avanguardia, il quale, qui a Milano, prepara con vigile amore, e indefessa fatica le sorti avvenire dell’arte italiana». Una compagine non ingessata, caratterizzata da defezioni e nuovi ingressi, che non mutarono, tuttavia, la linea generale del suo progetto. Nei suoi scritti, rintracciava in loro la «sincerità», il «sacrificio dell’orpello», la «rinunzia all’effetto facile, e perciò più piacevole», esaltandone «sobrietà e limitazione». L’arte aveva per Margherita una funzione alta, non di svago ma di trasmissione di valori, cui contribuiva la stesura salda delle forme, la solidità classica ma non classicista: una «moderna classicità», insomma, capace di rivivere il passato senza retorica, in una ricerca della «più vera delle verità, la bellezza». L’«armonia espressiva» si opponeva allora alla «cruda espressione», in un «ideale di concretezza e di semplicità, limpidità nella forma e compostezza nella concezione».
1923 alla Galleria Pesaro, Milano
È dell’anno seguente, 1923, l’inaugurazione alla milanese Galleria Pesaro della prima mostra di artisti di «Novecento», alla presenza del neo presidente del Consiglio Benito Mussolini. Dopo la partecipazione alla Biennali di Venezia nel 1924 con una sala dei «Sei pittori di Novecento», nel 1926 il gruppo cambia nome, aggiungendo la specifica nazionale. La prima mostra del movimento Novecento Italiano inaugura al Palazzo della Permanente di Milano, ancora alla presenza di Mussolini, con grande riscontro sulla stampa, e segna il momento di massima partecipazione del regime alla configurazione sarfattiana, portando a numerose acquisizioni da parte dei musei pubblici di Milano e Roma, oltre che dallo stesso Mussolini. Seguono anni in cui la Sarfatti promuove una serie di mostre all’estero, in Europa e Sudamerica, nel tentativo di internazionalizzare l’arte italiana.
Nel 1929, la Seconda Mostra del Novecento Italiano segna tuttavia l’inizio della fine. Il regime e lo stesso Mussolini si allontanano dalla Sarfatti, messa in disparte dall’emergere delle mostre del Sindacato Fascista, della Triennale – dal ’23 a Monza e dal ’33 a Milano – e della Quadriennale romana, nata nel 1927. In quel 1929, il Duce le scrive una durissima lettera, intimandole di non sostenere nei suoi scritti una coincidenza tra «Novecento» e arte fascista e irridendo la sua pretesa di ipotecare l’intero secolo, affidando quel nome alla compagine dei suoi artisti.
Le due mostre che ricostruiscono ora l’articolata vicenda (fino al 24 febbraio) mettono al centro le opere, lasciando al visitatore il giudizio su liceità e grandezza del pensiero della Sarfatti. È così che, mentre Felice Casorati suona una nota talmente alta da lasciarsi difficilmente assimilare a un gruppo di qualsiasi genere, alcuni artisti rinfrescano il percorso stupendo i meno adusi al genere, come accade almeno con Anselmo Bucci a Milano e Mario Tozzi a Rovereto. Uscendo, la mente va a due immagini correlate che si riesce solo a giustapporre a quelle appena viste. La prima è il rigetto che, di «Novecento», avrebbe compiuto dieci anni dopo il Realismo, con le ferite del Ventennio negli occhi, brandendo il dolore della Guerra in una mano e Picasso nell’altra. La seconda è la fortuna di questi artisti oggi, con il 2019 alle porte, quando Morlotti, Guttuso o Cassinari faticano a mantenere il posto che meritano, mentre Morandi e Casorati tornano a star benissimo in un salotto minimal-concettuale dal design internazionale.