«Ora accadde che un gruppo di artisti amici discutesse un giorno a Milano, dell’arte italiana e delle sue tradizioni… Disse allora qualcuno, a questo proposito, a Milano nel 1920, in quel crocicchio di amici: “il nostro secolo sento che vedrà ancora il primato della pittura italiana. Sento che ancora si dirà nel mondo e nel tempo: Novecento Italiano”».

Così nella sua Storia della pittura moderna, pubblicata nel 1930, Margherita Sarfatti ricordava la nascita dell’avventura artistica di cui era stata l’assoluta regista.

È un ricordo che merita però di essere centellinato, perché contiene tante informazioni importanti.

Per due volte, in quelle poche righe, ad esempio si ribadisce che l’incontro che dava il la all’esperienza era avvenuto a Milano. Non è un caso: l’anno prima proprio a Milano, nel centralissimo Palazzo Cova, si era tenuta la grande mostra sul Futurismo, una mostra che «rappresentava più una giubilazione che una celebrazione», ha scritto Elena Pontiggia.

Nella città stessa dove era nato, il movimento di Boccioni era arrivato al capolinea. La guerra, per la quale i futuristi si erano tanto spesi, seppure vinta si era trasformata in un insopportabile fardello di morte come documentato dalle opere amare di Mario Sironi reduce dal fronte. Insomma c’era da ricominciare: l’anno 1920 fissa la data di questo nuovo avvio.

Nella frase di Sarfatti c’è un’altra parola con due occorrenze: «amici». Il gruppo infatti si sarebbe dato una sorta di Magna Charta con quindici postulati che lo assimilavano a una vera Fraternità artistica. Era previsto anche meccanismo mutualistico, che prevedeva il prelievo del 5 per cento delle vendite di ciascun dei sette componenti, per venire incontro a chi si fosse trovato in difficoltà. Non era dunque tanto un movimento nel senso usato dalle avanguardie, ma qualcosa di diverso: un cronista raccontando un’esposizione del gruppo aveva sottolineato come si avvertisse «un’aria di famiglia».

Infine il ricordo di Margherita Sarfatti contiene un ossimoro, che ai tempi poteva essere certamente percepito come tale: si evoca la tradizione come riferimento e insieme ci si battezza Novecento, cioè sulla frontiera della modernità.

Del resto Dal moderno all’eterno era il titolo di un altro libro che Sarfatti avrebbe voluto scrivere per rendere pubbliche le basi ideali di quell’aggregazione: il che restituisce con chiarezza l’ambizione a tenere insieme i due opposti.

Alla Storia del Novecento italiano Elena Pontiggia ha dedicato un libro (Fondazione VAF/Allemandi, pp. 364, € 48,00) che si presenta davvero come una storia: la sequenza dei fatti è ricostruita con grande chiarezza e completezza. Ed è un bene perché i fatti parlano e aiutano a pesare anche i valori in campo.

A proposito dei valori in campo, è emblematica la ricostruzione della prima apparizione pubblica del gruppo, seppur non ancora al completo.

Era il 19 marzo del 1920, «una sera memorabile per l’arte italiana», aveva annotato Natale Mezzolà, l’avvocato di Arturo Martini.

All’angolo tra la centralissima via Dante e via Giulini era stata aperto uno spazio espositivo nei sotterranei di un negozio di apparecchi elettrici, messi a disposizione dal proprietario. Sarebbe stata ribattezzata, un po’ eufemisticamente, Galleria degli Ipogei.

Tuttavia il posto piaceva anche a un personaggio dai gusti complicati come Giorgio De Chirico (pure lui si era da poco trasferito a Milano): «Un luogo amenissimo, un piccolo eden sotterraneo», lo aveva definito.

In mostra c’erano cinque dei futuri sette di Novecento: Mario Sironi, Achille Funi, Anselmo Bucci, Leonardo Dudreville, Piero Marussig. Mancavano solo Gian Emilio Malerba e Ubaldo Oppi. In compenso erano presenti autorevoli fiancheggiatori, come Carlo Carrà, Arturo Martini e Giorgio De Chirico.

La vera novità della mostra se ne stava un po’ nascosta nell’ultima sala degli ipogei: tre Paesaggi urbani di Mario Sironi. In pochi se ne accorsero, tant’è che anche per Pontiggia è stato difficile identificare due dei tre quadri esposti. Quello sicuro è Paesaggio urbano con camion del 1920. Solo la Sarfatti intuì subito la novità di quelle vedute moderne concepite con il rigore di un classico.

«Sironi ha appreso dagli antichi la lezione della misura, della compostezza e della sobrietà squadrata e semplice», scriveva sul Popolo d’Italia. «E gli aspetti più disordinati e più squallidi della vita odierna per essa restano glorificati». Il Paesaggio con camion, scrive Pontiggia, «è tenacemente semplificato e ridotto ad un incrocio di lastre e cubature»: ci sono pochi dubbi che questa serie di opere di Sironi rappresentino il punto di più alta sintesi dell’idea che stava alla base di Novecento.

Da via Dante la scena si sposta su via Montenapoleone, dove i sette espongono nella Bottega di Poesia fondata da Arturo Toscanini e poi in via Manzoni dove Lino Pesaro aveva aperto la sua Galleria nello stesso palazzo che accoglie il Museo Poldi Pezzoli.

È qui che nel 1922 il gruppo si costituisce in modo più formale ed elabora la sua Magna Charta. Non erano mancati gli incidenti di percorso: quando, nella turnazione delle opere in vetrina, venne esposto l’innocentissimo Conca fiorita di Oppi, scoppiò uno scandalo e scattarono sequestro e provvedimento giudiziario contro il gallerista.

Mussolini non si preoccupò troppo del polverone e il 26 marzo presenziò alla mostra di Novecento.

Se ne potrebbe dedurre che il gruppo fosse schiacciato sul regime. «Novecento però non crea mai un’“arte di stato”», precisa Pontiggia. E anche Margherita Sarfatti in questa fase è attenta a difendere l’autonomia del gruppo: «Da subito condanna la diffusione di un’agiografia littoria, fondata su contenuti ideologici e non sullo stile».

È lei a tenere vivo il dibattito nel gruppo con gli appuntamenti settimanali nel suo appartamento di Corso Venezia 93. Non un salotto, ma studio; «salon ou l’on cause», lo definisce il figlio Amedeo.

Nel 1926 si tiene così la prima mostra di Novecento alla Permanente.

Il bellissimo manifesto, estremamente dinamico, è disegnato da Sironi, il catalogo è progettato da Marcello Nizzoli, il futuro creatore della Lettera 22 Olivetti.

Nel 1929 alla seconda edizione, dove Martini presenta il grande bronzo con il Figliol prodigo, il fronte si sfilaccia. Nel 1933 è Sironi a sancire la fine dell’esperienza con il Manifesto della pittura murale, sottoscritto anche da Campigli, Funi e Carrà. È lì che si decreta l’addio alla «pittura da cavalletto cerebrale e circoscritta».

Una nota sul libro, che nasce per volontà della Fondazione VAF, una fondazione tedesca il cui fine è quello di promuovere l’arte italiana moderna e contemporanea.

Negli anni VAF ha costituito anche un’importante raccolta di opere: il nucleo più importante è esposto al Mart di Rovereto. Una parte rilevante delle immagini che corredano il volume provengono da questa collezione.