Dobbiamo essere ben consapevoli dei rischi che derivano dal riscaldamento climatico, non tanto per disegnare scenari apocalittici, ma per affrontarli nel modo migliore. Ignorarli, sì, sarebbe assurdo. Vorrei che fosse chiaro. Con l’aumento delle temperature, in certi casi sarà sufficiente adattarsi con piccoli cambiamenti: modificare i metodi di coltura o rafforzare le difese costiere, senza dover cambiare la struttura di un sistema. Oltre un certo punto, però, e in determinate situazioni, l’adattamento incrementale non è più possibile e occorre che il sistema si trasformi in qualcosa di diverso. Per esempio, sarà necessario cambiare il tipo di utilizzo di un territorio oppure può essere che una laguna si trasformi in un lago. Non stiamo parlando dell’estinzione dell’umanità, stiamo parlando di qualcosa di diverso da quello che abbiamo ora». Piero Lionello, ordinario di Oceanografia e Fisica atmosferica dell’Università del Salento e membro del Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici, tra gli autori della seconda parte del VI Report IPCC su rischi, vulnerabilità e adattamento ai cambiamenti climatici, ci prospetta un pianeta in trasformazione, un mondo che non è più quello che conosciamo.

Professor Lionello, quali sono le novità rispetto all’ultima edizione del 2014?
In questi giorni abbiamo presentato una valutazione delle conoscenze sulla base della lettura scientifica degli ultimi 8 anni. È un periodo in cui la ricerca sui cambiamenti climatici si è intensificata e le evidenze sugli impatti si sono accumulate. Oggi la regione del Mediterraneo si è scaldata in media di 1,5°C rispetto al periodo pre-industriale, questo non era possibile affermarlo 8 anni fa. Se da una parte questi temi possono apparire già noti, già sentiti, in realtà mi preme sottolineare che il livello di evidenza dei fenomeni sta aumentando in modo importante. Gli impatti sono estremamente reali, progressivamente documentati e questo dove aiutare l’opinione pubblica a prendere consapevolezza di quanto sta avvenendo. In più, gli scenari futuri sono sempre più ricchi di dettagli.

Il rapporto esamina rischi, vulnerabilità ma anche le soluzioni di adattamento al clima. L’adattamento ha in genere costi molto elevati. Conviene adattarsi?

Ci sono molti studi che mostrano i vantaggi economici dell’adattamento rispetto a subire passivamente i cambiamenti. Io non sono un economista, ma esiste una letteratura dettagliata sull’argomento. In molti casi, dal momento in cui si inizia a percepire un’urgenza al momento in cui viene attuato un piano, passa un tempo molto lungo. Non è prematuro pensare oggi a quello che accadrà tra 50 anni, perché interesserà la generazione futura. Le risposte approntate in condizioni di urgenza non sono il modo ottimale di affrontare un pericolo. Quindi occorre una discussione sulle priorità per orientare le scelte. Se non riusciremo a mitigare il cambiamento climatico, cioè a stabilizzare il clima, si porranno delle scelte. Con l’ingegneria si può porre un limite alla perdita di zone costiere, ma in genere ha un prezzo in termini eco-sistemici, di fruibilità e di utilizzo ricreativo-turistico. Anche sull’acqua si creerà una competizione tra settori che sarà necessario gestire: ci sono grandi spazi di adattamento sull’ottimizzazione delle risorse idriche, però bisogna tenere presente che se il cambiamento eccede certi limiti, le nostre capacità di adattamento incontrano limiti effettivi.

Cosa possiamo imparare dalla storia del Mose di Venezia, finanziato con la legge speciale del ‘73, progettato negli anni ‘90 e entrato in funzione nel 2020?

La vicenda del Mose ci insegna i tempi lunghi che sono richiesti per sviluppare queste strutture che, proprio per questo, devono essere pianificate tenendo conto di scenari di aumento del livello del mare anche estremi. In generale, penso che dobbiamo imparare a chiederci se saremmo disposti ad accettare un Mediterraneo senza i siti del suo patrimonio culturale e monumentale. Non credo. Sarebbe una terribile perdita di identità. Sono 49 i siti patrimonio Unesco sul Mediterraneo e 47 sono a rischio di inondazione a fine secolo.

L’aumento del livello del mare viene descritto come inesorabile. Nel Rapporto scrivete che nello scenario peggiore, con un aumento della temperatura di 4°C nel 2100, le spiagge di sabbia possono arretrare di 100 metri, mentre a 3°C il rischio si riduce di un terzo. Che ne sarà delle località balneari?

Quello che possiamo fare è lasciare alla natura gli spazi naturali di adattamento. Per esempio, lasciare alle dune la possibilità di migrare, o lasciare gli spazi in cui, in presenza di inondazioni, il mare possa temporaneamente espandersi. Sono soluzioni possibili in alcune zone, ma non in altre, almeno nel breve termine, per esempio se c’è una strada litoranea o un insediamento. Ecco che si deve aprire una discussione nel territorio, perché una scelta di adattamento in genere sottrae spazio ad altre attività. Per questi fattori è necessario che la pianificazione sia vista come un processo a lungo termine in cui diverse esigenze vengono mediate e conciliate. Ripeto, non vorrei dare l’impressione di essere catastrofista: ci troviamo a operare delle scelte che possono tradursi anche in opportunità per un miglioramento dell’efficienza dei settori produttivi e della qualità della vita dei cittadini. Occorre che queste scelte vengano inserite nell’agenda politica.

Nella sintesi del VI Rapporto si legge che tra gli ostacoli alle misure di adattamento in Europa c’è la mancanza di un senso di urgenza. Dunque, il messaggio non è abbastanza chiaro per i decisori politici?

Bisogna interpretare bene: quella frase non è un giudizio sulla politica – non è questo il compito dell’IPCC – ma un modo per sottolineare quanto è importante che la politica sia sensibile affinché le azioni siano efficaci. Così come è importante agire ora, subito: nel caso di un ecosistema naturale, se sforiamo il 1,5°C di aumento della temperatura per poi ritornare al di sotto grazie a misure di mitigazione, non c’è garanzia che l’ecosistema poi torni alla condizione precedente.

Il fatto che l’Italia non abbia ancora adottato il suo piano di adattamento non è un buon segnale…

L’IPCC riporta alcuni dati nel capitolo 13 in cui emerge un certo ritardo tra i paesi dell’Europa del Sud nello stato delle strategie e dei piani di adattamento. L’Italia ha la strategia ma non il piano. Diciamo che potremmo fare meglio. Abbiamo risorse, conoscenze e capacità tecnologiche, noi come l’Europa. Ma questo non ci rende invulnerabili.

Con la perdita di gran parte dei ghiacciai sulle Alpi anche le zone del Nord Italia soffriranno di scarsità di acqua?

Le evidenze attuali per il Nord Italia e le Alpi non evidenziano una attesa diminuzione delle precipitazioni nel loro complesso, ma alterazioni della stagionalità, per la diminuzione della copertura nevosa e quindi un cambiamento dei termini in cui viene rilasciata la risorsa idrica. Oltre al danno economico per il turismo, e al danno ambientale, questo costituisce un danno all’identità culturale per le interazioni tra uomo e ambiente in montagna, che rischiano di essere compromesse.

Il rapporto enfatizza il ruolo delle comunità locali e l’importanza di un sistema inclusivo per affrontare le minacce del clima. Come evitare il senso di impotenza che i cittadini esprimono rispetto a questi problemi?

Esistono molte scale con cui vanno affrontati i cambiamenti. In tutte queste scale il coinvolgimento dei cittadini è un requisito fondamentale per il loro successo, così come la presenza di istituzioni che godono della fiducia dei cittadini e operano in modo trasparente. Bisogna evitare questa sensazione di impotenza, se c’è.