Quasi nessuno lo chiama più Wincenty, quel nome che insieme a tante altre cose ha lasciato dietro di sé alla fine degli anni Venti, a Varsavia, per rifarsi una vita in Argentina. Aveva combattuto agli ordini del maresciallo Piłsudski contro i russi e già allora si sentiva più polacco che ebreo. Ma poi, all’università, erano bastati gli insulti degli studenti cattolici, e antisemiti, per ricordargli come pogrom e discriminazioni non riguardassero solo le campagne e il mondo, che gli appariva così arcaico e lontano, degli shtetl. Per questo l’invasione della Polonia, la seconda guerra mondiale, l’inizio delle violenze che culmineranno nella Shoah, sorprendono Vicente Rosenberg nella quiete spensierata di Buenos Aires, dove da elegante frequentatore delle milonghe si è già avviato a diventare un premuroso padre di famiglia.

L’Europa non potrebbe apparire più lontana, ben più delle decine di migliaia di chilometri di mare che la separano dalle coste argentine. Il sogno porteño di questo giovane polacco si è realizzato e quanto accade oltreoceano è al massimo al centro degli incontri settimanali in un bar alla moda con altri due amici , come lui ebrei, con i quali commenta gli articoli di giornale.

Questo finché le lettere sempre più drammatiche di sua madre, rimasta a Varsavia insieme ad un altro figlio, non strappano definitivamente Vicente dal suo esilio spensierato: mano a mano che attraverso quelle missive l’orrore che si va compiendo gli sarà annunciato, si isolerà dal mondo, schiacciato dal senso di colpa, per chiudersi in un silenzio che lo accompagnerà fino alla fine dei suoi giorni.

Ispirato alla storia della famiglia dell’autore, Il ghetto interiore (Neri Pozza, pp. 140, euro 17, traduzione di Margherita Botto) non è solo un romanzo affascinante, pervaso dalle atmosfere contraddittorie di un’epoca che alimentava le speranze mentre nutriva la distruzione, ma un’indagine rigorosa sul rapporto che ciascuno intrattiene con quella parte di sé che si è soliti racchiudere nell’ambigua definizione di «identità». E che – come insegna proprio la storia dell’antisemitismo – è stata evocata spesso nel corso della storia quale sinistro annuncio di sventura e di persecuzione.

Sceneggiatore e regista cinematografico, ha diretto Quelques jours en septembre e lavorato a lungo con Cédric Klapisch, Santiago H. Amigorena è nato a Buenos Aires e vive a Parigi. Il ghetto interiore è parte di un progetto, sorto per «combattere il silenzio che mi soffoca da quando sono nato», spiega l’autore, di cui sono già usciti in Francia diversi titoli a partire dal 1998.

[do action=”citazione”]Il protagonista del romanzo è ispirato a mio nonno che è stato incapace di dare un nome all’indicibile e si è chiuso in sé stesso. Lo hanno fatto in molti di fronte alla Shoah[/do]

Santiago H. Amigorena

Mentre le notizie che arrivano dalla Polonia peggiorano, Vicente sente crescere dentro di sé un duplice senso di colpa: verso i propri familiari che ha abbandonato, ma anche verso sé stesso per essersi allontanato dalla cultura ebraica, sfuggendo così al pericolo. La fuga e il tradimento dominano la sua storia?
Ho cercato di scrivere del silenzio di Vicente Rosenberg, mio nonno, e di come quel silenzio sia diventato anche il mio silenzio. La sensazione di aver tradito la sua famiglia, di aver tradito la promessa fatta a se stesso quando lasciò Varsavia nel 1928 per stabilirsi a Buenos Aires – quella di tornare, di salvare i propri cari – sono indubbiamente all’origine del senso di colpa che provava, un senso di colpa così terribile a cui saprà dare una sola risposta: tacere per sempre. Tuttavia, la fuga, o l’esilio, e il tradimento, mi sembra siano sempre collegati in qualche modo. Non puoi abbandonare il tuo paese, o la tua famiglia, senza tradire, anche se, a volte, abbandonare il tuo paese o tradire la tua famiglia è l’unico modo per sopravvivere.

Dopo che a Varsavia i nazisti hanno costruito un muro intorno al ghetto, il protagonista è scosso da un sogno ricorrente: un muro gli cresce intorno, ma è parte del suo corpo. L’odio verso gli ebrei cerca di imprigionarlo in qualcosa che in realtà ha cercato di non essere più?
La sensazione che un muro lo circondi e lo soffochi, l’orribile sensazione che non possa più respirare, a meno che non riesca a bucarlo, a costo però di sentire che il muro è fatto della sua stessa pelle… Tutto questo è dovuto all’abbandono di una parte di sé, a una delle tante sfaccettature della propria identità che ha negato. Ma non siamo forse tutti intrappolati in questo tipo di odio? Non soffriamo tutti per non essere chi eravamo? E la liberazione, attraverso il silenzio o la scrittura, non è sempre la distruzione di un muro che, allo stesso tempo, è la nostra stessa pelle?

La consapevolezza di Vicente sulle intenzioni dei nazisti si discosta dal modo in cui l’opinione pubblica dell’epoca fu informata e reagì a quanto avveniva. Se accolte in un altro modo, quelle notizie avrebbero potuto cambiare il corso delle cose?
Purtroppo temo che la natura stessa delle «notizie», del giornalismo e dei media sia informare desensibilizzando. Credo sinceramente che solo la prosa letteraria, la letteratura e la filosofia informino sensibilizzando. In ogni caso, il fatto che notizie così terribili come quelle che, a partire dal 1941, furono pubblicate sulle stragi in cui erano coinvolti i nazisti (o quelle che si pubblicano oggi sui migranti annegati nel Mediterraneo) non riescano a cambiare la situazione, dovrebbe indurci a interrogarci sul modo complessivo in cui percepiamo il mondo. Che sia perché non le leggiamo, perché non hanno eco, o perché servono solo a trovare inaccettabile, ogni giorno, ciò che abbiamo già trovato inaccettabile il giorno prima (e che quindi continuiamo ad accettare), c’è qualcosa nel modo in cui siamo informati che, credo, fa sì che il «corso delle cose», qualunque siano le atrocità che ci circondano, non cambi mai.

Fino a che punto si può dire che il silenzio nel quale Vicente sceglie di chiudersi sia una manifestazione dell’impossibilità di dire l’indicibile, di dare un nome al genocidio. O, piuttosto, si tratta della sua risposta all’impossibilità di vivere se non attraverso un’identità imposta?
Vicente Rosenberg, come tutti all’epoca, malgrado conoscesse la Shoah solo da migliaia di chilometri di distanza, è stato incapace di dare un nome all’indicibile e si è chiuso nel silenzio. Ha fatto del silenzio il suo ghetto, un ghetto intimo, doloroso come poteva essere un ghetto che si trovava nel bel mezzo dell’esultanza e della gioia che animavano Buenos Aires negli anni Quaranta. Come tante persone che vivono delle situazioni terribili, lui non ha saputo trovato le parole per tutto ciò. O meglio, non le ha proprio cercate. Per questo a un certo punto il libro sembra perdersi in una genealogia dei nomi dati alla distruzione degli ebrei d’Europa. L’identità che i nazisti cercavano di dare agli ebrei – quella di non poter essere che ebrei, quella in base alla quale dovevano smettere di essere tutto il resto (polacchi, tedeschi, madri, padri, figlie o figli, ricchi o poveri, felici o infelici, amanti della musica classica o della filatelia) – serviva solo a definirli, determinarli, vale a dire finirli, terminarli. Tocca a noi, credo, figli e nipoti, cercare le parole: non lasciare che l’indicibile diventi l’impensabile.

[do action=”citazione”]Per Hitler, gli ebrei smettevano di essere altro: polacchi, tedeschi, madri, padri, ricchi, poveri. Definirli serviva per «finirla» con loro[/do]

 

L’emigrazione ebraica in Argentina è stata un fenomeno consistente, alla base della nascita di una borghesia urbana come dei «gauchos judíos», i cowboy ebrei della Pampa. Poi, in molti, come la sua famiglia, furono costretti a lasciare il paese per sfuggire alle dittature militari.
Anche se prima di scrivere questo libro non l’avevo mai formulato in modo così chiaro neanche a me stesso, faccio parte di quella generazione di argentini che è «ri-tornata» in Europa. Gli ebrei, o gli italiani, che a migliaia fuggirono alla volta dell’America cento anni fa si stavano dirigendo verso l’ignoto; gli argentini tornati in Europa a causa della dittatura (anche quelli che, come me, hanno qualche goccia di sangue indiano nelle vene) stavano tornando in un territorio conosciuto, presso i loro antenati.

Quella di Vicente è una tragica storia vera, ma la sfida di vivere fuori da un’identità predefinita e fissa è più che mai attuale. Silenzio e esilio interiore sono davvero l’unica risposta?
Naturalmente no. Ciò che il libro propone è che si cerchino delle parole, delle forme: di far parlare un silenzio che non svelerà però mai tutti i suoi segreti. Oggi c’è una forma di fascismo politico, seppur mite, che porta al fatto che le identità vengono fissate costantemente. Ma un ebreo, un arabo, un immigrato, uno straniero – un essere umano – non deve mai accettare che si dica di lui ciò che «è» o deve essere. L’identità è sempre qualcosa di dubbio, di discutibile. Io stesso, oggi a Parigi, sono ad esempio più arabo che ebreo. Allo stesso tempo come scrittore sono francese, ma non riesco a sottrarmi al mio passato, che è argentino, ebraico… E credo sia importante avere sempre identità multiple e libere su ogni piano.