Erdogan, esponente di punta della “democrazia illiberale” (sempre meno democrazia e sempre più illiberale), detto “sultano” per la deriva autoritaria in cui sta trascinando il suo paese e per le sue ambizioni “geopolitiche”, ha deciso, di punto in bianco, di riportare Santa Sofia alla sua funzione religiosa. Ha cancellato una pagina importante della storia del laicismo turco. La notizia non ha suscitato la preoccupazione dovuta, eccezione fatta per i nazionalisti greci, che associano il monumentale tempio alla grecità, e Papa Francesco, allarmato dalla prospettiva di un nuovo focolaio di conflitto tra musulmani e cristiani.

In realtà Santa Sofia, salva la sua ovvia appartenenza al patrimonio culturale turco, non è proprietà esclusiva di una religione o di un popolo. Nel senso che nessuno ne dovrebbe disporre come gli pare e piace. Come Partenone, Pantheon, Notre-Dame, la moschea di Cordova, San Pietro, appartiene alla civiltà mondiale, a tutta l’umanità. Notre-Dame e San Pietro sono tuttora luoghi di culto. Santa Sofia non lo era più. Il suo ritorno alla funzione religiosa è riattivazione dell’uso nazionalista della religione. Sconfitta della concezione laica della vita e del popolo turco. Sconfitta di tutti noi.

Può un potere statale o religioso appropriarsi del futuro di una testimonianza della creatività umana che non gli appartiene veramente (se non all’interno di vincoli etici e culturali universali)? I luoghi di culto sconsacrati hanno una grande importanza simbolica nell’emancipazione dell’arte dalla sottomissione a qualsiasi forma di potere e ne affermano il valore politico, nel senso di mezzo e spazio di espressione/ realizzazione del gusto del vivere e del sentire/pensare della Polis.

Estendono la sovranità democratica anche nei luoghi in cui l’arte continua a servire (o a convivere con) fini che le sono estranei (lontani dalla sua natura di fine e mezzo al tempo stesso).

La mossa di Erdogan sa di opportunismo, ma mira a sfruttare la diffusione in tutto il mondo del sentimento identitario come valore a sé stante. Usando l’antica e consolidata ricetta della commistione tra religione e nazionalismo, cerca il consenso attraverso la creazione di un senso collettivo di identità tanto attrattivo quanto divisivo e belligerante. Non è detto che riesca nel suo intento manipolativo: il popolo turco dà segni tangibili di insofferenza al suo autoritarismo e potrebbe riprendere in mano il suo destino. Tuttavia l’indifferenza con cui i suoi gesti (e quelli degli oligarchi a lui simili) vengono accolti dalla comunità internazionale, agisce, di fatto, come incentivo di conflitti temibili, che arrivano, apparentemente “a ciel sereno”, quando ormai è tardi per spegnerli.

Il concetto di ‘identità’ è intrinsecamente contraddittorio: ha due significati opposti. Da una parte rappresenta un modo originale di essere, che non è qualcosa di definito e immobile, ma una “presenza” in trasformazione nelle relazioni di scambio, al di fuori delle quali perde il suo senso. Ha radici profonde nei profumi, nel gusto, nella “musica”, nei panorami delle terre natie, ma la sua particolarità non è nei luoghi, bensì nell’apertura, esposizione dell’essere che il trovarsi gettati in un mondo di sensazioni sensuali crea. E’ un sentimento di co-appartenenza all’essere umani.

Nella direzione opposta, l’identità rappresenta un’appartenenza a un insieme di valori e di idee chiusa in se stessa, delimitata e delimitante, tendente all’intima convinzione di una propria superiorità anche quando è in rapporto con ciò che le è esterno. E’ fonte di conflitti che spesso hanno esiti disastrosi.

Sconsacrare l’arte, separarla dal suo uso identitario, ci aiuta a ritrovare il senso della nostra presenza tra gli altri, l’unico modo di essere presenti in se stessi.Mette in moto non identità, ma modi di essere, differenze comunicanti e dialoganti.