«Ci sono arrivate le briciole». «Lo stato fa tutto per voi». Il presidente della Lombardia Fontana e il ministro per gli affari regionali Boccia hanno litigato anche ieri.

Esplosa già di fronte alle prime difficoltà, cresciuta in mille post e dirette facebook dei governatori (celebre quella di De Luca con le mascherine del «coniglietto Bunny»), alimentata da fughe in avanti delle ordinanze locali e paralizzanti indecisioni centrali, giustificata da una serie di errori della macchina dell’emergenza (da ultimo ancora le mascherine, inviate ma non a norma), la polemica tra le regioni e il governo si spiega in buona parte con la politica. La lotta politica di regioni a guida leghista contro il governo giallo-rosso, la ricerca di visibilità politica del presidente della Campania che prima del virus rischiava di non essere confermato. Ma non c’è solo questo. C’è soprattutto un assetto istituzionale che non funziona, non solo in emergenza. «Le regioni hanno già i poteri adeguati per intervenire», dice Boccia. «Le regioni non dispongono né delle competenze né delle risorse in bilancio per fare fronte alle emergenze sanitarie il cui presidio è a livello nazionale», risponde Fontana. Chi ha ragione? Probabilmente entrambi.

La salute è materia di legislazione concorrente (nazionale e regionale) dal 2001. Spinta verso le regioni dalla riforma del Titolo V (centrosinistra), che hanno adesso la competenza di legiferare su assistenza e organizzazione della salute, la sanità mantiene nella Costituzione un presidio statale per quanto riguarda i livelli essenziali delle prestazioni (ma lo stato è inadempiente) e il finanziamento – tant’è vero che non è infrequente che una regione venga commissariata per i disavanzi nella spesa sanitaria. E infatti i governatori di alcune regioni del nord hanno cercato, anche con referendum, di prendere il completo controllo della materia. Ma d’altra parte la Costituzione prevede che il governo possa sostituirsi alle regioni, in tutte le materie, quando c’è «pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica» e quando lo richiede «la tutela dell’unità giuridica o economica» e «dei livelli essenziali delle prestazioni». E soprattutto dopo la dichiarazione dello stato di emergenza (31 gennaio) le competenze per il coordinamento degli interventi e anche gli acquisti (con un commissario nominato allo scopo) sono in capo alla protezione civile, cioè al governo.

Eppure il presidente del Consiglio ha detto spesso e ripetuto davanti al parlamento la settimana scorsa che «l’organizzazione della sanità è di pressoché completa competenza delle regioni». Anzi è stato proprio Conte nel primo decreto, quello del 23 febbraio, a lasciare ai governatori la possibilità di intervenire liberamente con le loro ordinanze, ricordando la legge istitutiva del servizio sanitario nazionale che già nel 1978 prevedeva il potere di intervento urgente di presidenti e sindaci in caso di minacce concrete alla salute nelle loro comunità. Poi, con l’ultimo decreto, ha dato una registrata limitando quella che era stata interpretata come una delega.

Adesso, provocato dal vice segretario del Pd Orlando (prima con un’intervista a questo giornale, poi alla Stampa) ha ripreso quota il dibattito sulla necessità di ricondurre allo stato la competenza sulla sanità. Per chi aveva sostenuto il referendum costituzionale del 2006, compresi Renzi e Boschi intervenuti ieri, si tratta di recuperare quella «clausola di supremazia» che era contenuta nella riforma di allora. In una formula che richiamava quanto già previsto nell’articolo 120, ma prevedendo che l’intervento nelle materie non di competenza esclusiva (non solo, quindi, la sanità) fosse fatto per legge a tutela dell’unità della Repubblica oppure, genericamente, dell’«interesse nazionale». Nelle dichiarazioni di ieri la maggioranza è risultata unita nelle intenzioni, e potrebbe recuperare una proposta di legge del Pd (Ceccanti) che alla clausola di supremazia accompagna l’obbligo di consultazione preventiva della Conferenza Stato-Regioni (mai costituzionalizzata). Lega e Forza Italia sono contrarie, ma Fratelli d’Italia non lo è.