Nel 2001 la risposta del Pd, allora Democratici di sinistra, alla pressione federalista della Lega fu la riforma del Titolo V della Costituzione. La sanità fu così consegnata totalmente nelle mani inesperte delle regioni e la si indicò come una esperienza avanzata di federalismo. Oggi è il luogo dove il federalismo è clamorosamente fallito.

Il senato ha appena approvato la «riforma della riforma» del Titolo V ed è come se si tornasse indietro di tre lustri, cioè a una specie di malcelato decentramento amministrativo che supera la legislazione concorrente, con poteri regionali più limitati e maggiori poteri al ministero, che addirittura può avvalersi di una «clausola di supremazia» su qualsiasi cosa regionale ritenuta subveniente all’interesse generale.

Con questa riforma del Titolo V si sancisce così un giudizio politico sulle regioni inappellabile: esse hanno fallito nell’impresa di governare la sanità con importanti danni collaterali ai diritti delle persone, alle professioni, ai valori cardine del sistema pubblico (giustizia, universalismo, solidarismo).

Perché le regioni hanno fallito? I più sono inclini a pensare al problema che la Corte dei Conti ha definito «mala gestio»… e a dir il vero che la sanità sia stata sino ad ora una bella greppia per la politica locale non possiamo negarlo. Essa costituisce almeno i tre quarti del bilancio regionale.

Ma non è solo questo. Formalmente la motivazione per giustificare la modifica del Titolo V è stato l’eccesso di contenzioso tra stato e regioni. Problema che pur esiste ma che resta secondario. Personalmente credo che le regioni abbiano fallito per gli uomini mediocri che hanno gestito la sanità (pochi sono gli assessori che ho conosciuto in 40 anni che si possono considerare altro da bravi amministratori), per la mancanza di un vero pensiero riformatore (non si governano i cambiamenti epocali con politiche marginaliste e con l’invarianza sostanziale del sistema) e perché le regioni non sono riuscite alla fine a diventare regioni…. con ciò riproponendo un vecchio dibattito che prese forma addirittura con la nascita della Costituzione sulla loro affidabilità politico-istituzionale.

Nessuno si chiede quali danni ha causato il fallimento delle regioni. A parte il danno erariale per truffe, corruzioni, abusi, lottizzazioni, che è davvero ingente vi è quello dell’ingiustizia sociale legata alla crescita delle diseguaglianze alla crescente privatizzazione del sistema e a forti restrizioni della copertura pubblica, della qualità dell’assistenza, ecc. Le insufficienze delle regioni sono state pagate in prima persona dalle persone più deboli e dalle loro necessità primarie. Questa per me resta una ferita profonda soprattutto all’art 32.

Avremmo potuto evitare il disastroso bilancio se le regioni avessero fatto le regioni, se avessimo avuto assessori riformatori, se avessimo potuto attuare un cambiamento di sistema. Ora abbiamo un «patto per la salute», sottoscritto tra governo e regioni, che sicuramente farà crescere la spesa ma questa volta con un paese che non cresce, e quindi con una prospettiva plausibile di tagli lineari, di ulteriore privatizzazione e di ricorso a mutualismi sostitutivi.

Davanti a questa prospettiva il governo come userà i suoi nuovi poteri conferiti dal nuovo Titolo V?

Non mi ha mai convinto l’idea che bastasse togliere poteri alle regioni per darli al ministero pensando che ciò bastasse per risolvere i problemi della sanità. Anche il ministero ha l’obbligo di un progetto, di un pensiero riformatore, di uomini adatti al cambiamento….ma tutta la sua progettualità è riposta nel «patto» che ha sottoscritto con le regioni. Cioè si è modificato il Titolo V ma le politiche delle regioni e quelle del governo più che mai oggi sono indiscernibili.

La riforma, comunque un segnale di cambiamento importante, se non è accompagnata da un salto nelle politiche sanitarie non porterà niente di nuovo. Che senso ha redistribuire i poteri se le politiche non cambiano?