Si è bagnato di sangue il voto di fiducia del neoeletto parlamento iracheno sul governo di unità nazionale che spera di cancellare otto anni di gestione Maliki. Un’altra giornata densa di attentati e raid statunitensi hanno accompagnato il difficile tentativo di riconciliazione del neo premier al-Abadi. L’attacco più sanguinoso è arrivato dall’acqua, ieri all’alba: i miliziani dell’Isis, a bordo di navi, hanno colpito una cittadina lungo le rive del fiume Tigri, Dhuluiya, 70 km a nord di Baghdad.

Due ore di fuoco – prima di essere ricacciati indietro – che hanno provocato la morte di 17 persone e il ferimento di 54. Nelle stesse ore due autobomba (con a bordo attentatori suicidi sunniti, ma probabilmente non miliziani dell’Isis) saltavano in aria nel mercato della cittadina, in un’area considerata roccaforte della tribù sunnita al-Jabour. Dhuluiya è parte della cintura di comunità sunnite a nord della capitale, fino ad oggi confine ufficioso mai scavalcato dalle milizie di al-Baghdadi, che ora fa il passo in più e minaccia il cuore del paese.

Due giorni fa teatro di guerra era stata invece la seconda diga più grande del paese, dopo quella di Mosul: Hatidha, 220 km a nord ovest di Baghdad, da sabato notte a domenica mattina è stata target dei bombardamenti statunitensi che hanno aperto la strada all’avanzata dell’esercito iracheno, sostenuto anche da miliziani tribali e forze di controterrorismo. Un raid che segna l’allargamento dell’operazione aerea statunitense all’interno della provincia di Anbar (dopo i bombardamenti lungo il solo confine con il Kurdistan e la zona intorno Irbil) e che è modello dell’intervento immaginato dal presidente Obama e della futura coalizione di volenterosi: nessuno stivale di marine sul terreno ma sostegno militare all’esercito iracheno, ai peshmerga e alle milizie presenti sul campo di battaglia, da quelle tribali a quelle sciite gestite dall’Iran.

Target dell’intervento congiunto sono stati una serie di villaggi alle porte della diga di Hatidha, lungo il fiume Eufrate, occupati dall’Isis nel corso degli ultimi due mesi: tra loro le comunità di Qaim, Rawa, Barwana e Ana, lungo il corridoio che dalla diga portano al confine con la Siria. Obiettivo, impedire alle milizie jihadiste di occupare l’impianto, come quello di Mosul strategico dal punto di vista economico e di potenziale militare: l’eventuale apertura della diga da parte dei qaedisti potrebbe provocare inondazioni capaci di minacciare Baghdad.

E mentre i chiari segni di una guerra civile dalle radici profonde mordevano, il parlamento iracheno veniva chiamato a dare la fiducia all’esecutivo proposto da al-Abadi e a votare i tre vicepresidenti – uno di loro è il primo ministro uscente, Maliki: a tarda serata, con 177 voti a favore su 328, il neo premier ha archiviato l’ok all’avvio della legislatura e a tutti i nomi proposti per i ministeri (eccezion fatta per due, Difesa e Interni, che andranno di nuovo individuati)

A ritardare le operazioni di voto è stata l’indecisione delle fazioni curde che fino all’ultimo hanno tenuto con il fiato sospeso Baghdad. A negoziare per la regione autonoma del Kurdistan è stato Zebari, attuale ministro degli Esteri, che manterrà la poltrona anche all’interno del nuovo esecutivo: «Oggi [ieri, ndr] arriveremo alla nostra decisione finale dopo un meeting con i leader curdi», aveva annunciato nel pomeriggio Zebari, aggiungendo che la partecipazione all’esecutivo di unità era stata messa in discussione dalla mancata accettazione da parte dell’Alleanza Nazionale (il blocco sciita) delle richieste curde, in particolare il budget previsto per la regione autonoma di Irbil e la questione petrolio. Nei mesi scorsi il potere centrale aveva interrotto i pagamenti ai dipendenti pubblici curdi a seguito delle vendite autonome di greggio portate a termine dal Kurdistan senza il benestare di Baghdad.