Il rettifilo di ippocastani che dal carcere delle Nuove porta direttamente ai giardinetti di Piazza Carlo Felice, davanti alla stazione di Porta Nuova, apre la scena del romanzo mentre nel sole a picco dilaga una luce che però non è limpida, ma densa e polverosa, accecante. Davvero sembra una strada fuori mano dell’Ohio e non il centro deserto di Torino, il posto in cui si trovano due giovani ex compagni di cella, Berto il ragazzo di città e Talino il campagnolo nativo del Roero. Sono rispettivamente il protagonista, nonché voce narrante, e il deuteragonista del romanzo d’esordio di Cesare Pavese, scritto nella prima estate del 1939 ed edito nel maggio del 1941 a pochi mesi e non troppi chilometri di distanza dai luoghi in cui Luchino Visconti gira Ossessione, che può dirsi il film gemello estroverso di un romanzo invece come pochi introverso, ma capace di proporre parimenti dei volti, situazioni e vicende di un’Italia reale nella sua indigenza, un mondo operaio e specialmente contadino che il regime fascista celava da vent’anni alla stregua di un segreto vergognoso.

Anche per questo motivo Paesi tuoi (Prefazione di Paolo Di Paolo, Rizzoli «Bur contemporanea», pp. 213, € 10,00), che oggi torna nell’ottima curatela di Valter Boggione, poté essere scambiato per un’anteprima neorealista e, anzi, per il manifesto di un ritorno neo-naturalista al Verga con i temi persino obbligatori di provincia reclusa, fatica, violenza e miseria. Notoria è peraltro la trama del romanzo in cui Berto segue Talino nel ritorno a casa, visitando il suo mondo saturo di misteri tellurici, di cupa sofferenza e riti atavici prima di assistere, sgomento, alla uccisione di Gisella (la sorella di Talino della quale si è invaghito) per mano del fratello, infilzata alla gola con un colpo di tridente, un gesto in cui si mescolano pulsioni incestuose e delirio di onnipotenza.

Chi ha firmato questa cruda short story è un trentatreenne redattore della Einaudi che ha alle spalle alcune prove narrative (ma le sente tutte quante delle false partenze), svariate traduzioni dalla letteratura anglo-americana tra cui una almeno memorabile (Moby Dick, del 1932), un gran bel libro di poesie (Lavorare stanca edito da «Solaria» nel 1936, irruzione della prosa-prosa nella austera clausura del coevo ermetismo) nonché un anno di confino in Calabria per motivi politici pure se in effetti, nel suo caso, essi corrispondono a un pegno d’amore. Ma che Cesare Pavese non fosse un puro tramite degli angloamericani né, tanto meno, un teorico di quanto si sarebbe poi chiamato «effetto di realtà» già lo testimonia il dubbio che, recensendo Paesi tuoi, avanza un collega di Pavese nella redazione romana di Einaudi, Mario Alicata (1918-1966), contemporaneamente membro della bande à Visconti nella sceneggiatura di Ossessione e militante del Partito Comunista clandestino di cui nel dopoguerra sarebbe divenuto dirigente di primissimo piano e direttore dell’Unità: infatti (e la sua recensione verrà accolta nel postumo Scritti letterari, il Saggiatore 1968) Alicata vi afferma che il romanzo pavesiano «in un critico naturalista potrebbe suscitare molti scrupoli geografici, etnici, folkloristici».

Sono evidentemente gli scrupoli e i dubbi che in prima persona tormentavano sia il futuro responsabile della leggendaria collana viola Einaudi («Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici», che esordisce nel 1948 con i titoli di de Martino, Jung e Lévy-Bruhl) sia il firmatario del libro di gran lunga più caro e più suo fin sul letto di morte, Dialoghi con Leucò (’47). Al riguardo, se nel senso comune si è sedimentata una doppia immagine di Pavese, la stessa che sa distinguere ma non riesce mai a connettere il narratore terrigeno della Langa e l’affascinato indagatore del mito, ora Boggione, sia nel denso saggio introduttivo eloquentemente titolato Le origini, la violenza, il sacro sia nell’apparato delle annotazioni ne interroga l’esordio narrativo quale intersezione fra realtà e simbolo. Lo studioso legge Paesi tuoi nel segno di un ritorno alla terra madre e dunque di una catabasi al mondo istintuale e del tutto antropomorfo (laddove basterebbe l’immagine delle colline equiparate a mammelle) in cui Talino incarna la potenza nera e squassante del toro e Gisella al contrario la lucentezza bianca della luna, di Leucotea e di Artemide medesima. Qui il decorso del romanzo parrebbe duplicare quello elettivamente iscritto nella tragedia greca e che va infatti dal pathos al mathos, cioè da uno stato di incognita sofferenza a quello liberatorio di agnizione e conoscenza, nel momento in cui Berto e Talino si mettono in viaggio verso Monticello, il mondo primordiale.

«Il cammino dell’anima della mia Divina Commedia», lo aveva definito Pavese nel diario alludendo per l’appunto al tentativo di razionalizzare l’irrazionale. Si tratta tuttavia di un tentativo «fallito e forse colpevole», nota Boggione, che aggiunge: «Il viaggio fisico di Berto da Torino a Monticello si configura come cammino di conoscenza, caratterizzato dall’impegno a indagare quella realtà primitiva e selvaggia portandone a chiarezza i lati oscuri e ambigui (…) Se quello di Berto è un viaggio verso le origini, come più volte è stato detto, esso rappresenta dunque il fallimento di ogni tentativo di razionalizzare il fondo originario dell’essere». Se Talino è un attante inconsapevole, Berto ne è l’interprete frustrato che rimane chiuso nei misteri dell’incesto e del rito sacrificale. Mistero che in quanto tale non solo James G. Frazer ma anche Sigmund Freud direbbero piuttosto un incubo, vale a dire il luogo chiuso da cui non si vedono vie di uscita. Tale è la dimensione che Boggione battezza con gli aggettivi di «infernale e ctonia», pertinenti in esclusiva al dionisiaco, deducendone le tracce non tanto dall’opera di Nietzsche quanto, e magari non ce lo aspetteremmo, dai fondali più neri del dannunziano Trionfo della morte (o anche, aggiungiamo a questo punto, da talune cupezze, quasi di un Maupassant ulteriormente tarato, che abitano Le novelle della Pescara).

Quell’universo chiuso e risonante dalla profondità mitica preme in superficie e produce alterazioni che la pagina di Pavese stilizza in un idioletto vero e proprio, perché se è vero che la lingua del mito è un dialetto in sé ineffabile allora è vero altrettanto che la pagina può somatizzarne la presenza: in proposito, Gian Luigi Beccaria parlò di «dialettalità attenuata» nel caso di Pavese così come, a suo tempo, Italo Calvino di «stile reticente e ellittico». Che è lo stile tipico di Lavorare stanca, qualcosa di metricamente intermedio fra l’endecasillabo e la pentapodia giambica, un passo lungo che mantiene sempre qualcosa di ossessivo, di sonnambolico, una andatura da versetto biblico o da trebbio, da raccolto corale che si ritrova nella cadenza di Paesi tuoi ad apertura di pagina, come per esempio nell’incipit del secondo capitolo («Ma per partire aspettammo il mattino perché Monticello è un paese di scarto che di notte non passano i treni»), dove sembra introdursi un banale parlato che, viceversa, è pulsazione ritmica di formule rituali prima che di frasi convenute. È il mondo immobile e impenetrabile, di sangue e suolo riarso, che Cesare Pavese denudava al presente senza disporre di un accredito che non fosse di neo-naturalista fuorimano, di epigono verghiano, scorbutico e introverso.