Un uomo in una lussuosa stanza d’albergo ordina al telefono qualcosa da mangiare e poi in aggiunta chiede una piastra per waffle. Se qualcuno conoscesse la breve sinossi di Sanctuary, opera seconda di Zachary Wigon presentata al Festival di Toronto e ora in concorso alla Festa del Cinema di Roma, potrebbe equivocare e immaginare che quell’oggetto possa servire al protagonista per dolorose e intense pratiche sessuali. Non è così. È uno dei numerosi tranelli che il regista statunitense e lo sceneggiatore Micah Bloomberg hanno elaborato per gli spettatori. Il film, girato prevalentemente in una stanza, con Margaret Qualley e Christopher Abbott unici interpreti, nei ruoli di Rebecca e Hal, è un vero e proprio gioco di specchi nel quale si riflettono e moltiplicano allusioni, citazioni, riferimenti a generi cinematografici. Un lungo dialogo nel quale i due personaggi si divertono a mimetizzarsi e a trasformarsi da deboli a forti, da nemici ad amanti, da ricattatori a mediatori, da persone comprensive a terribili psicopatici.

UN UOMO, una donna, una relazione dai confini indefiniti e la ricerca di un piacere dai colori sfumati. «Non si tratta delle regole, non si tratta di cosa ti ecciti, quello è secondario. Il motivo per cui non tocco i miei clienti e per cui loro non toccano me, è che ciò di cui hanno bisogno da me non è qualcosa di fisico. È qualcosa di mentale». Dunque, tra Rebecca, che è entrata nella stanza non sapendo che quello sarà l’ultimo appuntamento, e Hal inizia una partita combattuta con la testa e con le emozioni che scaturiscono da ogni pensiero, parola, movimento dell’uno o dell’altra.
Se di Rebecca Marin sappiamo solo che usa una parrucca bionda, finge di essere un’avvocata ed è una dominatrice, di Hal Porterfield possediamo qualche nota biografica in più. È un trentenne, in passato si suppone abbia avuto dei problemi con l’alcol, e forse ne soffre pure oggi con il suo bicchiere di whisky ancora in mano. Ha abusato di farmaci, fatto uso di droghe e, soprattutto, ha appena ereditato da suo padre un’imponente catena di hotel. Nel suo primo anno al comando guadagnerà, tra stipendio e bonus, dodici milioni di dollari. Ed è quindi il caso di eliminare distrazioni reputate sconvenienti.
Se è abbastanza evidente come mai Rebecca rifiuti l’idea che quello possa essere il loro ultimo incontro, meno chiaro è il perché Hal si affidi alle abilità di questa professionista. Ha problemi sessuali? Si annoia e paga per un piacere insolito? Ha a che fare con il suo percorso che lo ha portato a essere un milionario, solo per una questione di sangue? Deve risolvere l’eterno conflitto con un padre così ingombrante, che ha scelto come motto dell’azienda, «ci sono cose che non cambiano mai»? È semplicemente un uomo debole che desidera essere sottomesso?

A QUESTE DOMANDE si potrebbe rispondere sempre in modo affermativo, se non fosse per un dubbio che si insinua a inizio film. Infatti, presto scopriamo che è proprio Hal a dettare le regole del gioco. Scrive un copione che i due devono rispettare rigorosamente. Il conflitto tra Hal e Rebecca, in particolare da quando lui le regala un orologio come se avesse di fronte un poliziotto prossimo alla pensione, è un mescolarsi di realtà e finzione, con un paradosso sull’esercizio del potere.
Se da un lato la dominatrice comanda, dall’altro non può che seguire ciò che il soggiogato le ha scritto e ordinato di fare. Chi ha realmente il potere? Il committente o chi esegue? Forse non è necessario rispondere a queste ultime domande e lasciare a Rebecca e Hal la facoltà e il piacere di agire su uno spartito, perché rispettarlo o meno è pur sempre una libera scelta.