Suruwa Jaiteh aveva 18 anni, veniva dal Gambia. Inserito nello Sprar di Giojosa Jonica, era in attesa del rinnovo del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Sabato era andato a trovare dei parenti nella tendopoli di San Ferdinando ed era rimasto a dormire. È stata la sua ultima notte.

Un rogo che ha distrutto due baracche, sviluppatosi in seguito ad un fuoco acceso da alcuni migranti per scaldarsi, lo ha sorpreso nel sonno. La salma ieri mattina è stata trasferita nell’ospedale di Reggio per l’autopsia. A disporre l’esame autoptico è stato il pm della procura di Palmi Giuseppe Cappelleri che indaga su quanto accaduto nella baraccopoli. Nella Piana di Gioia Tauro oltre al fratello del giovane, Soumbu, che vive a Catania, sono giunti anche i genitori del ragazzo. La situazione nel campo è tranquilla dopo una domenica ad alta tensione con cassonetti rovesciati e la protesta pacifica davanti al municipio di San Ferdinando.

A placare gli animi la notizia, si fa per dire, dell’individuazione di un sito alternativo dove saranno sistemati dei container. Un film già visto troppe volte a queste latitudini: prima una tragedia causata da scellerate politiche di “accoglienza”, poi la rabbia dei migranti, infine le rassicurazioni finte e ipocrite delle istituzioni. In realtà, l’unico piano che produrrebbe effetti concreti sarebbe dare un tetto e una casa ai raccoglitori, che specie in questo periodo affollano l’agro gioiese.

L’associazione Sos Rosarno, in collaborazione con l’urbanista Alberto Ziparo ha mappato i centri abitati per individuare la miriade di case sfitte nella Piana. L’idea è quella assegnare agli immigrati che vivono nel ghetto un alloggio dignitoso. Tutto inutile.

In prefettura e al Viminale preferiscono evidentemente le salme che periodicamente escono dalla favela in mezzo alla zona industriale: prima di Suruwa la stessa fine era toccata a Becky Moses, incenerita da un rogo killer nella tendopoli dove s’era trasferita gioco forza da Riace dopo esser stata «diniegata» dalla commissione territoriale. Ancor prima Sekine, morto per un colpo di pistola sparato da un pubblico ufficiale che dovrebbe essere capace di disarmare una persona che ha un coltello da cucina in mano senza sparagli addosso. Più a ritroso c’erano stati i morti per il freddo: Dominic, assiderato perché non aveva trovato posto nella tendopoli, e Marcus che si ammalò di polmonite perché dormiva in una baracca in mezzo alla campagna. A 48 ore dalla tragedia il fratello della vittima non riesce a darsi pace: «Era venuto in Italia un anno fa. La sua ambizione era studiare e giocare a calcio».

Le baracche, costruite ad alcune centinaia di metri dalla tendopoli “ufficiale” in cui vivono altri 800 migranti, sono adesso in mezzo al fango. Una situazione che crea tensione e rabbia tra i migranti . «Bisogna smantellarla» chiedono con forza gli attivisti. «Pensassero a dare una sistemazione dignitosa a questi lavoratori – s’infervora Mario Vallone, coordinatore regionale Anpi- e bisogna fare questa battaglia insieme a quella sacrosanta contro le leggi Salvini. La mobilitazione è necessaria ora più che mai. Se c’è un aspetto insopportabile in questa storia, oltre al dolore, è vedere la finta commozione di quanti avrebbero potuto fare qualcosa e non hanno mosso un dito».

Anche Mimmo Lucano, il sindaco sospeso di Riace, è intervenuto: «Queste tragedie sono il frutto della mala accoglienza e della barbarie a cui ormai ci siamo assuefatti. Morire a 18 anni bruciato vivo in una capanna avvolta di plastiche è la pacchia di cui parla Salvini, la pacchia di chi viene per trovare la vita e incontra la morte nella società degli odi razziali. Adesso viene Natale e diventeremo tutti più buoni. Ma proviamo a fare il cambio almeno per una settimana: ministri, prefetti, sindaci. Andiamo tutti a dormire nelle baracche di San Ferdinando per provare sulla nostra pelle le sofferenze di Becky, Soumayla, Souruwa. E di chissà quanti altri ancora».