I passi del foxtrot sono circolari, riportano sempre chi balla al punto da cui ha cominciato. Proprio questa danza, che evoca un destino circolare, dà il titolo al film vincitore del Gran premio della Giuria: Foxtrot di Samuel Maoz, tornato a Venezia dopo aver vinto il leone d’oro nel 2009 con Lebanon. Diviso in tre atti, il film si apre su Michael, un uomo che nel suo lussuoso appartamento di Tel Aviv riceve la notizia che il figlio, militare in servizio a un check point, è stato ucciso. Ma è solo un errore: Jonathan, questo il suo nome, è ancora vivo e passa le sue giornate a un tranquillo checkpoint nel deserto a disegnare fumetti. Ma una scelta sbagliata di Michael, che rivuole il figlio a casa, riporta la sua storia – come nel foxtrot – al punto in cui era iniziata.

Il regista Samuel Maoz
Il regista Samuel Maoz

Come nelle tragedie, in Foxtrot i figli scontano gli errori dei padri

Il film è una riflessione sul destino, ma anche sulla seconda e terza generazione dei sopravvissuti all’Olocausto, traumatizzate a loro volta dal servizio militare: è una tragedia senza fine, che in parte ci è stata imposta e in parte forse avrebbe potuto essere evitata, circolo vizioso di errori e fallimenti. Credo che la nostra società sia pervasa da un’ansia che è il frutto di una percezione distorta della realtà dovuta proprio a questo trauma. È come un bambino picchiato dal padre: è certo che in futuro non ripeterà lo stesso errore, ma spesso invece è proprio quello che succede.

La storia è anche in qualche modo autobiografica? 

Alla radice della storia di Foxtrot c’è un fatto che mi era successo personalmente. Quando mia figlia andava a scuola non si svegliava mai in orario, quindi per non fare tardi mi faceva chiamare un taxi. Dopo un po’ che andava avanti così le ho detto di prendere il bus come tutti gli altri. Ma poi, dopo mezz’ora che era uscita di casa per prendere il bus ho sentito alla radio che un uomo si era fatto esplodere proprio sulla sua corsa, e che centinaia di persone erano morte. Ho provato a chiamarla ma i cellulari non prendevano, e ho passato un’ora peggiore di tutta la guerra in Libano. Poi è tornata a casa: aveva perso il bus.

La riflessione sul destino nasce da questa esperienza?

Ho provato a esplorare il concetto che noi chiamiamo fato, di confrontarmi con il gap fra le cose di cui abbiamo il controllo e quelle che sono al di là della nostra volontà.

Il film è strutturato in tre atti quasi indipendenti l’uno dall’altro.

Volevo dare forma a un percorso emotivo: la prima parte riguarda lo shock, la seconda è ipnotica e la terza commovente. È un processo circolare completo, strutturarlo in tre parti distinte mi ha aiutato a immaginarlo e realizzarlo. Ogni sequenza del film riflette, attraverso gli strumenti del cinema, la personalità del personaggio che ne è protagonista: la prima è tagliente, fredda, visivamente ordinata e simmetrica come il personaggio di Michael. La parte di mezzo, dedicata al figlio Jonathan, è come se si librasse a mezz’aria per riflettere la natura di sognatore di un artista. La terza sequenza, dedicata alla madre, è molto più calda e «morbida».

Oltre all’appartamento del protagonista e al check point si vede poco del mondo esterno.

Come in Lebanon volevo continuare a indagare le dinamiche umane che si sviluppano in uno spazio chiuso. Così – senza «distrazioni», deviazioni dal tema principale – si può scavare in profondità e far venire allo scoperto l’anima di un personaggio.