Samuel ha 45 anni ed è uno dei circa 300 fattorini che consegnano cibo a domicilio per Deliveroo a Milano. La storia di Samuel, e di una cinquantina di colleghi tra i 40 e 50 anni, smentisce la retorica sulla quale è costruita la fortuna delle piattaforme digitali. Lavorare per Deliveroo o Foodora non è cosa da ragazzini, né è un hobby. «Spesso questi lavori vengono raccontati come fossero “lavoretti” – sostiene Samuel – Per me i “lavoretti” non esistono. Il lavoro è lavoro e dovrebbe essere tutelato».

«Nella mia vita ho fatto il cameriere, il barman, il pizzaiolo e l’imprenditore – racconta – Avevo una pizzeria al trancio a Milano, quando l’ho chiusa perché la mia attività è fallita economicamente, ho cercato un altro lavoro. Nella grande Milano, dove pare che tutti trovino lavoro e che sia piena di opportunità, l’unica cosa che ho trovato è stata quella di fare il fattorino per Deliveroo. Nel momento che stiamo vivendo c’è tantissima gente che cerca lavoro ed è pronta ad accettare ogni condizione ed è su questo ricatto che Deliveroo si fa forza per non concedere nemmeno i minimi diritti».

Samuel è uno dei fattorini che, dopo lo sciopero dei colleghi torinesi di Foodora nel 2016, ha iniziato a organizzarsi. I «rider» chiedono che il lavoro sia regolato da un contratto. «Negli ultimi anni – aggiunge – la mia sensibilità per la lotta per i diritti dei lavoratori è cresciuta in modo esponenziale perché, dopo un decennio passato in Francia a lavorare con contratti veri ed un welfare dignitoso, mi sono ritrovato in una realtà lavorativa molto limitata e senza diritti».

Voci di corridoio fanno sapere che Deliveroo vorrebbe introdurre il cottimo. Per i «rider» sarebbe un gioco al massacro perché li obbligherebbe ad aumentare la velocità di consegna e quindi i rischi. I rider oggi usano mezzi propri, che non hanno un’assicurazione sull’infortunio. Se, per esempio, si rompono una gamba, devono stare a casa dal lavoro e non percepiscono alcun compenso. Come se non bastasse, devono anche coprire le spese mediche. Davanti all’assenza continuativa, l’applicazione che fissa settimanalmente genera gli orari smette di offrire turni. E il «rider» non riceve più le chiamate direttamente sul telefonino tramite una «app».

«Ad oggi – continua Samuel – lavoriamo con un contratto di collaborazione. Se superiamo i 5 mila euro di compenso ci obbligano ad aprire la partita Iva. Se non lo facciamo ci trattengono il 30% dello stipendio mensile. Per questo chiediamo di essere tutti assunti con il contratto nazionale della logistica e trasporto e un’assicurazione. Chiediamo di avere un minimo di 20 ore settimanali a 7.50 euro l’ora a prescindere dal numero di consegne che realizziamo».

Mentre le aziende invadono piano piano tutte le città d’Italia. a Milano, Torino e Bologna i fattorini si stanno organizzando in reti di lotta. A Milano i lavoratori in mobilitazione fino ad ora non hanno avuto nessuna apertura al dialogo da parte dall’azienda. L’ultima mobilitazione si è svolta il primo dicembre scorso davanti alla sede milanese di Deliveroo. La risposta dell’azienda è stata la chiusura dello sportello rider, l’unica occasione in cui i lavoratori possono incontrare fisicamente l’azienda.

Tutte le mobilitazioni di questi mesi sono state fatte dovendo sempre coprirsi il viso con una maschera per evitare ritorsioni. Chi lavora con Foodora o Deliveroo viene riconosciuto con nome e cognome e per il volto. L’assenza di un rapporto fisico con l’azienda però lascia “liberi” lavoratori di denunciare le pesanti condizioni di lavoro con i loro corpi e con le loro voci. «Dall’Europa però ci arrivano buona notizie: in Belgio sono riusciti ad ottenere la paga minima oraria» ci dice speranzoso Samuel. Una conquista messa a rischio da una defiscalizzazione voluta dal governo che ha portato i rider ad organizzare la protesta anche a Bruxelles.