Nella basilica romana di S. Maria Maggiore il busto in porfido policromo di António Manuel N-vunda (detto il Negrita) è posto ad eterna memoria di un episodio lontano nel tempo: il suo arrivo a Roma come ambasciatore del Re del Congo Mpangu-a-Nimi-a-Lukeni (Dom Alvaro II) con la missione diplomatica di rafforzare le relazioni tra il paese africano cristianizzato e lo stato pontificio. Ma il viaggio fu così travagliato che il nobile N-vunda giunse a Roma il 3 gennaio 1608 senza doni e febbricitante. Fu ricevuto e ospitato in Vaticano dallo stesso papa Paolo V che lo confortò con le preghiere, mettendolo (senza successo) nelle mani dei suoi medici. L’ambasciatore morì tre giorni dopo. Le cronache riportano che la cerimonia con cui si sarebbe dovuto festeggiare il suo arrivo divenne la celebrazione del funerale. Questa storia è tra le numerose altre che il fotografo e artista visivo Sammy Baloji (Lubumbashi 1978, Repubblica Democratica del Congo, vive e lavora tra Lubumbashi e Bruxelles), nonché cofondatore nel 2008 della rassegna di fotografia e video Rencontres Picha/Biennale de Lubumbashi, ha rintracciato durante il periodo trascorso a Roma come artista in residenza all’Accademia di Francia, tra la seconda metà del 2019 e il primo semestre 2020.

Il suo lavoro, insieme a quello degli altri borsisti che come lui non si sono mai fermati durante il lockdown (Frédérique Barchelard e Flavien Menu, Benjamin Crotty, Pauline Curnier-Jardin, Bastien David, Samuel Gratacap, Valentina Hristova, Mathieu Larnaudie, François Olislaeger, Louise Sartor, Fanny Taillandier, Sébastien Thiéry, Mikel Urquiza, Jeanne Vicerial e Sara Vitacca) è esposto nella collettiva Dans le tourbillon du tout-monde, curata da Lorenzo Romito nella storica villa (fino al 13 settembre). Sammy Baloji, il cui approccio narrativo nasce dall’esperienza di disegnatore di comics, ricerca e ristabilisce il processo di connessione della memoria africana pre e postcoloniale, in particolare del Congo, indagando i diversi strati – cancellazione e oblio – per riportare alla luce l’elemento mancante della connessione tra passato e presente. L’installazione Wunderkammern (Work in Progress) esposta nell’ex cisterna (a gennaio scorso è stato protagonista anche della performance musicale e poetica ispirata sia al genere epico Kasala che al jazz, insieme a Fiston Mwanza Mujila, Patrick Dunst e Christian Pollheimer), nasce proprio dalla giustapposizione di linguaggi diversi intorno alla ricerca sugli oggetti del Congo giunti nelle collezioni italiane tra il 1450 e il 1922. Oggetti che secondo una visione eurocentrica sono stati considerati come «curiosità» e non per il loro valore intrinseco di opere d’arte.

In altri progetti hai analizzato la storia e la memoria del Congo partendo dall’analisi di album coloniali, così come della tradizione del Kasàla, dei diorama del padre della tassidermia moderna Carl Akeley o del teschio del re congolese Lusinga che hai scoperto nei depositi dell’Istituto Reale delle Scienze Naturali del Belgio. A Roma qual è stato il punto di partenza?
L’approccio globale al lavoro è sempre lo stesso, parto da lontano per arrivare al contemporaneo. Ho portato avanti la ricerca iniziata nel 2016 sulla relazione tra Europa e Africa. Analizzando, in particolare, il punto d’incontro tra Alfonso I, re del Congo dal 1509 al 1543 e il re del Portogallo Manuel I. Tra questi due regni, infatti, ci fu uno scambio da cui si svilupparono ulteriori legami. Una relazione che riguarda il Vaticano, ma anche il coinvolgimento di altri paesi occidentali soprattutto per il commercio di uomini. Il 5 ottobre 1514 il re del Congo scrisse una lettera al sovrano portoghese in cui presentava la situazione generale del suo regno, rilevando la presenza di missionari cattolici giunti nel territorio per convertire la popolazione. Lui stesso era già convertito e battezzato con il nome di Alfonso I. Parlando del commercio con i mercanti portoghesi evidenziava sia gli aspetti positivi che quelli drammatici. In questa lettera mi ha colpito il profondo stato di solitudine del re del Congo che si lamentava soprattutto di non aver avuto risposta dal suo corrispondente. Chiedeva a Manuel I una riorganizzazione degli amministratori e dei missionari portoghesi a causa dei loro numerosi abusi e citava anche il fatto che gli ambasciatori che aveva inviato in Portogallo con doni preziosi, tesori e schiavi non avevano mai fatto ritorno. Una lettera che testimonia anche la cultura presente nel regno del Congo. Sono partito da questa lettera che ho trovato negli archivi nazionali di Torre do Tombo a Lisbona proprio per parlare della produzione artistica di una civiltà che si è persa con la presenza coloniale.

Gli oggetti del Congo sono nelle collezioni di molti musei europei, tuttavia non sono classificati per la loro natura di produzioni d’arte ma per il loro aspetto etnografico. Per la mia ricerca è stata molto significativa la mostra Kongo: Power and Majesty, realizzata dal Metropolitan Museum di New York nel 2015 con oggetti che coprivano i quattro secoli di vita dell’impero del Congo. Un regno che dal XV al XIX secolo occupava tre territori, il Congo Brazzaville poi diventato colonia della Francia, il Congo Kinshasa colonizzato dal Belgio e l’Angola dal Portogallo. Con la caduta dell’impero, la crisi della tratta degli schiavi e le devastazioni coloniali a seguito dell’occupazione dei territori quel periodo si concluse. Un’altra fonte di ricerca è stata quella dell’africanista italiano Ezio Bassani basata sullo studio degli oggetti africani, proprio a partire dal loro arrivo in Europa nel 1400. A Roma una collezione importante che contempla oggetti del Congo si trova al Museo delle Civiltà – Preistorico ed etnografico Luigi Pigorini. Prima di entrare nelle collezioni di questo museo gli oggetti facevano parte della collezione della congregazione gesuita presente nel disciolto Museo Kircheriano, un museo delle meraviglie o wunderkammer fondato da padre Athanasius Kircher. Mi interessa come proprio a Roma e a Firenze, nello stesso momento in cui con il Rinascimento si gettano le basi della classificazione dell’arte e dei mestieri artistici, con la nascita dei Musei Capitolini – il museo pubblico più antico del mondo a cui si è ispirato il Louvre – e dell’Accademia di Belle Arti di Firenze, le opere africane – anche quando si trattava di preziose sculture d’avorio – venivano esposte nelle vetrine come oggetti di curiosità e non per il loro valore di opere d’arte. Ho studiato questa dualità. Si definiva la storia dell’arte senza prendere in considerazione gli oggetti dell’alterità. Ritrovare questi oggetti e mettere in discussione il loro statuto, nonché la classificazione stessa di museo etnografico in quanto scienza coloniale – dove persino la loro presentazione si basa su uno sguardo eurocentrico – è un modo per riportare alla luce la storia che appartiene agli oggetti stessi e che è stata cancellata.

In «Mfuba’s extract» la percezione è esaltata dal contrasto bianco e nero dei colori acrilici su carta…
Ho estratto delle zone di tensione ottica dal tessuto M Fuba, Natte Kongo – Vili acquistato nel 1892 in Congo dal collezionista Carl Steckelmann la cui raccolta è oggi allo Smithsonian National Museum of Natural History di Washington. «M Fuba» vuol dire quello che non è maturo, crudo. Ho scelto, quindi, di estrarre ciò che non è ancora maturo. Anche il termine estrarre è legato all’idea dell’estrazione e appropriazione da parte degli europei di ricchezze e risorse naturali e umane che appartengono al Congo. C’è un riferimento anche all’arte cinetica, forma d’arte che si combina con l’evoluzione delle scienze moderne. In questo senso la mia opera esprime l’accostamento tra progresso e arte antica.

Nella manipolazione della fotografia, altro linguaggio a cui ricorri per mettere a confronto il passato e il presente, soprattutto quella d’archivio che ha per soggetto gli esseri umani (lavoratori, prigionieri, gente del luogo) che associ ai tuoi scatti a colori di paesaggi e architetture, c’è spazio anche per ridefinire la storia?
Quando ho iniziato a fotografare facevo principalmente fotografia documentaria. Fotografavo le architetture nell’area delle miniere del Katanga, dove sono nato. Solo successivamente ho studiato la classificazione degli edifici, lo stile e l’epoca iniziando a trovare la tensione, perché la gente che occupa quegli edifici non ha lo stesso mood di chi li ha costruiti. Questo mi ha portato a riflettere sulle zone in cui quelle architetture sono state costruite, sull’idea stessa di segregazione, di non condivisione dello spazio o della conoscenza, arrivando ad inserire le foto d’archivio, come quelle della compagnia mineraria Union Minière du Haut Katanga, in cui è evidente la tensione in atto durante il periodo coloniale.