Da giorni, forse da settimane, un Salvini per la prima volta in forma da tempo immemorabile sottopone la premier a una specie di doccia scozzese. Arretra sul fronte identitario per eccellenza, l’immigrazione, ma allo stesso tempo fa pendere come una mannaia i suoi 21 emendamenti, con la promessa di ritirarli se si riterrà soddisfatto da quelli del governo. Proclama fiducia e fedeltà all’alleata ma s’impunta sulle nomine. Soprattutto, Salvini stressa palazzo Chigi, nelle persone della stessa Meloni ma anche di Fitto, sul Pnrr. Difficile credere che il capo non fosse al corrente dell’affondo del suo capogruppo Molinari sulla possibilità di rinunciare a una parte dei fondi a debito del Pnrr: posizione del resto non simile ma identica a quella della stessa Giorgia Meloni prima di convertirsi al draghismo, con la benedizione del Colle, sulla via del governo. Poi è lo stesso leader a frenare e rassicurare: «Certo che i fondi vanno presi tutti». Però per «spenderli bene», cioè più o meno come vuole lui.

La tattica irrita e innervosisce la premier e i suoi collaboratori più stretti. Fioccano ipotesi su quale sia il vero obiettivo di Salvini: indebolire la premier, strappare più nomine, rimpinguare le casse per il suo faraonico ponte? In ciascuna di queste risposte c’è probabilmente qualcosa di vero ma il dato più rilevante è che Salvini sta piano piano depositando in un ripostiglio il sogno di una Lega nazionale per restituire al Carroccio il suo ruolo storico: una rappresentanza rigida e territorialmente egoista del solo Nord. Va in questa direzione la proposta di autonomia differenziata approntata da Calderoli e dalla nascita del governo è il solo fronte sul quale la Lega abbia battuto i pugni sul tavolo davvero, piegando una premier più che recalcitrante. Vanno nella stessa direzione anche le proposte di «rimodulazione» del Piano che ha in mente il ministro delle Infrastrutture. Fuori le grandi tratte ferroviarie, alcune delle quali in attesa di realizzazione più o meno dall’epoca dei treni a vapore. Dentro gli Intercity e i treni locali reclamati soprattutto dai comuni ad alto tasso di pendolarismo del Nord. Via gli asili nido, sotto con interventi massicci a favore della pianura Padana.

Lo stesso spettro di dover rinunciare a parte dei fondi europei, perdendo così la faccia di fronte all’opinione pubblica intera e alle capitali estere, è in fondo propedeutico alla pressione del leader per riconvertire il Piano. Senza nemmeno poter disporre dei rinforzi per la Pa, chiesti dal Mef e bocciati da palazzo Chigi perché troppo costosi, il leghista avrà gioco relativamente facile nell’insistere per far defluire i miliardi europei dove danno più garanzie di essere davvero investiti: nel settentrione. Non a caso tra le note del ministro figura la necessità di vagliare gli investimenti del Sud attualmente previsti.

Quando infuria la tempesta è sempre prudente rifugiarsi in un porto sicuro: quello a disposizione di una Lega flagellata dalla sconfitta di settembre nelle urne è il “nordismo”. È una svolta non dichiarata, in compenso però praticata e il risultato del Friuli-Venezia Giulia è un incentivo potente. Senza contare la necessità di darsi da fare subito per spartirsi più prima che poi i frammenti di Fi: il Cavaliere non riuscirà probabilmente a gestire ancora a lungo la leadership. Senza di lui Fi non esiste ma gli elettori azzurri restano e Salvini vuole che almeno quelli del nord convergano sul suo rinato Carroccio. Che somiglia molto a quello di Umberto Bossi.