Sei referendum sulla giustizia il partito radicale li aveva tentati l’ultima volta otto anni fa. Marco Pannella ancora in sella, anche allora le proposte spaccarono la maggioranza di governo – che era quello di Enrico Letta – e il centrodestra si impegnò a raccogliere le firme. Non troppo: alla conta di fine settembre ne mancavano migliaia e non se ne fece niente. Questa volta Matteo Salvini, che ieri ha presentato con il segretario del partito radicale Maurizio Turco sei non del tutto nuovi referendum, è convinto di farcela. Anzi promette che non si fermerà alle 500mila firme richieste, ma «ne raccoglieremo almeno un milione».

Qualcuno gli spiegherà che dovranno essere almeno tre i milioni di firme, visto che ogni quesito richiede 500mila sottoscrizioni. E magari i radicali troveranno il modo di dirgli che non va bene presentare i referendum come «uno stimolo al governo e alla ministra Cartabia perché facciano le riforme», visto che Pannella ha sempre difeso il valore direttamente legislativo del referendum abrogativo, intimando casomai al governo e al parlamento di non muoversi in pendenza di un quesito. Nel frattempo il capo leghista ha confermato di calarsi male nei panni del garantista, visto che mentre giurava di stare dalla stessa parte dei radicali nella difesa dello stato di diritto si faceva scappare che Brusca «è una bestia» ed è inaccettabile che adesso possa «girare in strada e andare in palestra (?)»dal momento che «il 90% degli italiani la pensa così».

I sei referendum per la verità non riguardano direttamente nessuno dei punti toccati dalle riforme del processo penale e del Consiglio superiore della magistratura che aspettano al varco la maggioranza in parlamento. Ma certo condizionano il quadro, o meglio condizionerebbero se dovessero essere ammessi dalla Corte costituzionale (dopo la raccolta delle firme). Il che non è affatto certo, non per tutti. L’eccezione è il primo quesito. Vediamo.
Il primo referendum punta ad allargare ad avvocati e professori universitari il diritto di voto nelle valutazioni di professionalità dei consigli giudiziari, una novità che i magistrati considerano pericolosa perché fonte di «interferenze» con l’autonomia delle toghe. La riforma in discussione alla camera si ferma un passo prima, prevedendo il diritto di tribuna per gli avvocati. Il secondo quesito, sulla custodia cautelare, è quasi identico a quello proposto nel 2013 che non riuscì a raccogliere le firme necessarie. L’obiettivo è in pratica di cancellare uno dei tre casi per i quali il magistrato inquirente può ordinare l’arresto cautelare: il rischio che l’indagato reiteri il reato. Poco prima che il referendum fosse inutilmente tentato, nello stesso 2013 il parlamento aveva limitato ai reati più gravi (oltre a quelli che prevedono uso di armi e l’attentato all’ordine costituzionale, che sopravviverebbero) la possibilità di arrestare cautelativamente l’indagato. Questo referendum eliminerebbe del tutto la possibilità.

Il terzo quesito riguarda la responsabilità civile dei magistrati, anche questo era stato tentato invano otto anni fa. Ma nel frattempo il parlamento, per rispondere alle indicazioni della Corte di giustizia europea, ha cancellato il filtro alle cause degli imputati ai magistrati. Ora l’intenzione è quella di esporre i magistrati alla responsabilità economica diretta, senza la copertura dello stato.

Il quarto quesito punta a cancellare la (assai criticata) legge Severino, quella per cui Berlusconi è stato dichiarato decaduto dal senato ma soprattutto quella che prevede la sospensione e la decadenza per gli amministratori locali anche nel caso di condanne non definitive per reati di particolare gravità. Il quinto quesito si occupa del Csm, ma in un modo assai meno ambizioso del referendum proposto agli elettori nel 2000 ma che non raggiunse il quorum. Quello puntava a cambiare il sistema elettorale della componente togata, questo vuole eliminare i “magistrati presentatori” delle candidature, nella convinzione che basti – come ha detto Salvini – a «tagliare le correnti».

Il sesto è ultimo quesito riguarda la separazione delle carriere ed è quello che più difficilmente sarà ammesso. È lungo oltre mille parole (o tre «continua a leggere di whatsapp») e cancella articoli e commi di sei diversi provvedimenti di legge. Vale la pena ricordare che nel 2000 la Corte costituzionale ammise un referendum denominato «separazione delle carriere» solo perché nei fatti prevedeva una semplice distinzione delle funzioni. Per separare le carriere, questione dagli evidenti profili costituzionali, sarebbe necessaria «una nuova e organica disciplina legislativa», disse allora la Corte. E tutto lascia pensare che si prepari a ripeterlo.