Il cambio di clima politico, dopo la battaglia delle presidenze, lo si avverte a pelle. La strada non è spianata ma quelli che si sono aperti sono qualcosa in più che non semplici varchi. E’’ evidente che Matteo Salvini, uscito dalla prova con in mano una guida della coalizione molto rinsaldata, guarda a M5S molto più che non al Pd. Sulla carta non esclude niente: «Governo col Pd? Perché no, se sono d’accordo su un programma». Poi però mette subito le mani avanti: «Ma penso sia difficile governare con chi ha governato negli ultimi cinque anni».

FORMALMENTE L’APERTURA a Luigi Di Maio è identica: «Se domani si facesse un accordo si potrebbe lavorare insieme, ma nel caso sarebbe su un programma di centrodestra». Parità solo apparente. Perché con M5S i segnali invece si moltiplicano. Il primo e forse più indicativo è l’apertura di credito sul reddito di cittadinanza, poche settimane fa un tabù per il Carroccio: «Se fosse pagare la gente per stare a casa no, ma se fosse uno strumento per reintrodurre nel lavoro chi ne è uscito invece sì». Tenendo conto che quello proposto dai 5S è in realtà già in partenza un Reddito di inclusione riveduto e allargato non sarà difficile trovare la quadra.
Il secondo messaggio è la disponibilità del leader leghista a rinunciare a palazzo Chigi: «Io sono pronto a metterci la faccia e a lavorare 24 ore su 24. Ma non è ’Salvini o morte’ e se c’è una squadra ragioniamo con la squadra». Non significa che la Lega intenda lasciare a Di Maio il timone del governo, ma è un passo esplicito verso una possibile mediazione che dovrebbe giocoforza passare per la rinuncia a palazzo Chigi da parte di entrambi i leader.
Il terzo messaggio inequivocabile è lo scambio di cortesie tra Salvini e Beppe Grillo, che gareggiano nel complimentarsi a vicenda per la dimostrata «affidabilità». Parole quasi identiche: «Ci si può fidare».

Ma un segnale molto più importante e concreto potrebbe arrivare molto presto, entro il 10 aprile. Per quella data il Parlamento dovrà votare il Def e, a commissioni parlamentari non ancora formate se ne occuperà, come già nel 2013, una commissione ad hoc nella quale i due partiti potrebbero spalleggiarsi e giocare di sponda sostenendo le rispettive mozioni o astenendosi reciprocamente. Potrebbe essere il viatico per un’idea di cui il leghista Giorgetti parla già da qualche giorno: istituire le commissioni parlamentari anche in assenza del governo, sovvertendo cioè non una regola, inesistente, ma la prassi, e poi adoperare le commissioni per iniziare a varare alcuni provvedimenti presenti nei rispettivi programmi. Chiunque sappia quanto dittatoriale e inamovibile sia la «prassi» in Parlamento, si rende conto subito di quanto solido diventerebbe il legame per il solo fatto di incrinare insieme quell’uso, restituendo così oltretutto alle Camere una centralità che da decenni è tale solo di nome.

CHE LA MANOVRA di avvicinamento sia in pieno corso e che sia stata anche accelerata dopo la vittoria politica della settimana scorsa è un fatto certo. Non significa affatto che gli ostacoli siano ormai facilmente superabili. Il primo ostacolo è Forza Italia. Battuto e umiliato, il partito azzurro è ormai non meno lacerato del Pd. L’area nordica più vicina alla Lega ha già dato, per bocca del leader Giovanni Toti, il suo semaforo verde al dialogo con i 5S. La metà del partito che è rumorosamente insorta sabato, radicata soprattutto al Sud, però è di parere opposto. Tanto che alla Camera una sessantina di deputati azzurri non hanno rispettato l’ordine di scuderia e non hanno votato per Fico, come rimarcano i capigruppo M5S, Toninelli e Grillo.
Per lo stesso Movimento, un accordo con Berlusconi è tutt’altro che facilmente digeribile, il che offre al Cavaliere una quantità di armi per silurare l’intesa, proprio come ha provato a fare la settimana scorsa reclamando un incontro diretto con Di Maio nella piena consapevolezza di chiedere l’impossibile. Oggi Fi eleggerà i capigruppo. In pole position ci sono Maria Stella Gelmini alla Camera e Anna Maria Bernini al Senato, entrambe berlusconiane di provatissima fede e poco inclini a genuflettersi di fronte a Salvini.

La seconda incognita è il Pd, che nella partita delle presidenze ha deciso di chiamarsi fuori facilitando così il compito a Salvini e Di Maio. I renziani fanno però capire che quando in ballo ci sarà il governo potrebbero scegliere un’altra strategia. Non subito, quando l’incarico verrà affidato prima a Salvini e poi, se il leghista come è prevedibile fallirà, a Di Maio, ma al terzo giro, quando a provarci sul serio sarà un nome indicato dal centrodestra ma diverso da quello del capo del Carroccio. A quel punto neppure i renziani escludono l’eventualità di sparigliare, o almeno di provarci offrendo a quell’ala di Forza Italia ostile a M5S la sponda che è mancata alla Camera e al Senato la settimana scorsa.