Se si vuole capire come i media costruiscano in laboratorio una leadership, bisogna seguire la scalata di Matteo Salvini. In un sistema sempre più disarticolato, il gradimento dei media basta da solo per inventare un leader dal nulla. Chi pensa alla Lega come a un soggetto quasi novecentesco, dal denso radicamento territoriale e dai riti para-ideologici di massa, si inganna.

La corsa di Salvini non si svolge affatto nel territorio. Non ha nulla di solido su cui camminare il leader dal maglione intercambiabile, a seconda del suolo che calpesta.

Il legame con la terra è sfumato anche per la Lega, come per gli altri pseudo-partiti esistenti, del resto. La penetrazione in Emilia, e il sostegno che sembra ricevere anche in aree del centro e del sud, non rinvia ad alcuna presenza organizzata nel territorio.

Questa mitologia delle radici nel rude paesaggio locale, con un ceto politico a portata di mano e sempre presente, non vale più per la Lega, che sfonda oltre la Padania solo perché è ospitata come non mai nei vecchi media. È con l’occupazione dello spazio televisivo che Salvini penetra anche nello spazio reale, dove manca con una vera struttura organizzata, come tutti gli altri attori.

Media e populismo con toni da destra radicale, questa è la miscela che consente alla Lega una impennata nei sondaggi. La fine della destra di un tempo, affida proprio alla Lega uno spazio politico che nessuno coltiva.

Il richiamo dei miti securitari, e gli echi della rivolta contro l’euro, trovano un’onda lunga già in movimento. E i leghisti la cavalcano, nella speranza di aggregare il cosiddetto «capitalismo della marginalità» e i ceti popolari spaesati.

I media vanno pazzi per Salvini. Per varie ragioni. Un po’ perché fa comodo progettare un duello tra i due Mattei. E c’è chi calcola che, con il Matteo lepenista come principale antagonista, è assai più agevole trionfare.

Da una parte la rabbia, la marea nero-verde che dovrebbe spaventare i moderati e lesionare la capacità coalizionale del leader leghista. Dall’altra la speranza, la bellezza e ricami analoghi che condiscono la retorica del giovin rottamatore.

A bocce ferme, questo disegno, di aiutare la crescita di un nemico dal profilo esagerato, per poi infilzarlo con più comodità, presenta una qualche razionalità. È già capitato con le europee, quando proprio la paura di Grillo e del ritorno alla liretta, ha funzionato come la identificazione di un nemico utile solo per tirare la volata a Renzi.

Ma in condizioni critiche, cioè di ulteriore delegittimazione della politica, per via degli scandali e per l’aggravamento della crisi sociale, questo calcolo di costruire per convenienza un nemico di comodo è grottesco. In casi estremi, il populismo forte, che associa la disperazione e l’offerta di capri espiatori facilmente individuabili, prevale sul populismo mite, con le sue narrazioni edificanti a copertura di ricette economiche sempre in continuità con quelle di Monti.

I poteri forti, ovvero quel poco che rimane di un capitalismo in via di espropriazione da parte del vorace capitale mondiale interessato all’acquisizione di aziende di qualità, quando offrono munizioni illimitate a Salvini, onnipresente nelle loro tv private e pubbliche, lavorano per una radicale soluzione populista all’emergenza. Hanno prima appoggiato Grillo, poi sostenuto Renzi e ora guardano a Salvini. Sperano che funzioni la saldatura tra la crisi, che sprigiona un sentimento di angoscia dinanzi alla prospettiva di una perdita di status, e la mitologia della tassazione unica al 15 per cento lanciata come magica risposta al declino.

Anche se nella sua agenda sfuma sempre più il tema della differenziazione territoriale interna e l’aggancio al nanocapitalismo del nord, la figura di Salvini conserva però dei limiti espansivi.

Non può competere come attore principale capace di sfondare nelle varie realtà del paese. Deve contare su una coalizione eterogenea tanto nell’offerta politica quanto nella copertura territoriale.

E qui affiorano per lui i problemi di convivenza tra una radicalità antisistema e la necessità di negoziazioni con spezzoni di ceto politico in ritirata. Il «centravanti» ha bisogno del «regista» ma Berlusconi, che si è offerto per svolgere questa delicata funzione, non sembra più avere la visione strategica richiesta.