C’era una volta la «Bestia». Per Matteo Salvini la politica è una ripetizione di concetti chiave al ritmo di post, tweet e Tik Tok. Per farla bisogna scegliere alcune etichette. E ripeterle all’infinito, indipendentemente dai contesti. E non importa che il contesto dica una cosa, e Salvini un’altra. La legge del politico da campagna elettorale – alle europee Salvini si gioca la segreteria della Lega e una parte della sua declinante carriera – sembra essere questa: bisogna dire sempre una parola sprezzante contro un avversario simbolico, ribadire quanto assurda sia la sua posizione. E quanto ragionevole sia la propria.

Salvini, ieri a Milano al G7 dei trasporti, ha detto: più «buon senso» e «meno socialismo». E anche «più pragmatismo, meno ideologia». Un classico copione recitato anche da Meloni quando alza i toni e libera lo scilinguagnolo romanesco. E poi Salvini ha aggiunto: «Meno Timmermans». Il riferimento è all’ex vicepresidente della Commissione europea, olandese e socialista, nel mirino delle estreme destre europee che difendono più chiaramente il capitalismo fossile. Timmermans infatti è stato responsabile del Green Deal europeo, le politiche che mirano a garantire che i 27 membri dell’Ue raggiungano la «neutralità climatica» entro il 2050.

Anche se Timmermans parla italiano, ha vissuto a Roma e, dopo quarant’anni, dice di sentirsi romano e romanista, è difficile immaginare che il suo nome in Italia porti qualche voto in più alla Lega salviniana in competizione con i Fratelli d’Italia meloniani. La tecnica del capro espiatorio presuppone che «Timmermans» e «socialista» sia un’associazione che provochi nell’elettorato di riferimento la furia di un torello che vede rosso e carica. Ma Timmermans non è Scargill, né i «socialisti» di cui fa parte sono i minatori inglesi che furono piegati dalla Thatcher. La «Lady di ferro» che suggestiona il Salvini nazionalista con ascendenze nel neoliberismo più reazionario . Salvini sembra vivere in un’altra epoca da cui ha importato una lontana memoria di ostilità contro avversari che non sono (lo sono mai stati?) come li descrive.

Un altro problema di Salvini è usare ogni contesto per dire la stessa cosa. Ieri ha detto che i suoi colleghi sono «assolutamente attratti» dal «suo» Ponte di Messina. Lui che ci tiene a dire di essere «nato a Baggio, Milano». Sarà forse perché teme che le sue parole sia più leggere dell’aria. E che venda il Ponte nelle urne. Ma il bisogno di dire di avere sempre ragione, e di farlo sapere a tutti, non sempre aiuta a fare diventare reali e più credibili gli annunci.

Il G7 in una dichiarazione si è impegnato a «svolgere un ruolo fondamentale per l’azzeramento delle emissioni entro il 2050» rispettando la «neutralità tecnologica». Con questo concetto-baule si intende un approccio «flessibile» alle diverse tecnologie a disposizione per la transizione energetica e climatica, senza che una prevalga necessariamente sulle altre. Senza cioè che si faccia troppi danni ai profitti e non si mandino in strada troppi lavoratori. Insomma è il tofu che va bene in ogni piatto. Anche in quello di Salvini. La «sua» transizione ecologica è, priva «di ideologia e improntata al buon senso – ha detto – perché non è possibile pensare di costruire auto solo elettriche». Detto da uno il cui governo non riesce a convincere Stellantis a costruire di più in Italia nemmeno quelle a combustibile fossile.

Il problema di Salvini è che il G7 ha messo al bando la produzione di auto endotermiche dal 2035 e prevede una verifica tra due anni. Una politica definita dal leghista «anti-europea, anti-industriale, anti-ambientale e filocinese».
Salvini ha annunciato la palingenesi. Se vincerà a giugno allora ci sarà una «revisione» di queste politiche. È la vendita delle pentole: vincere le europee non comporta cambiare i pareri del G7. Salvini non avrà la maggioranza nell’Ue. Sarà Meloni a gestire la partita, e non è detto che la spunterà. Le strategie bannoniane e trumpiste sono cattive consigliere. Chi le ripete, e non ha i voti, sembra un disco rotto.