«Alzare garbatamente la voce paga»: Matteo Salvini non perde un attimo per mettere all’incasso la vittoria politica conquistata giocando cinicamente sulla pelle dei 629 passeggeri dell’Aquarius. Fregandosene delle convenzioni e dei costumi istituzionali, appena arriva la notizia che la Spagna è pronta ad accogliere i profughi convoca la conferenza stampa direttamente in via Bellerio: il ministro degli Interni con dietro lo stendardo della Lega.

Per il successo della sfacciata operazione era fondamentale che tutto finisse bene permettendo al ministro di affermare che solo battendo i pugni sul tavolo le porte europee, solitamente blindate, si schiudono. Una volta andata in buca quella palla, il resto viene da sé: «Non abbiamo respinto ma chiesto ad altri Paesi di fare quello che noi facciamo da anni. Se ci saranno altre navi avremo lo stesso atteggiamento. Ci eravamo offerti di prendere donne e bambini ma non ci hanno risposto: dunque non c’erano problemi a bordo. Per la prima volta una nave destinata ad attraccare in Italia attracca in un altro Paese. Qualcosa sta cambiando».
La strategia è semplice: battere il ferro finché è caldo, anche e soprattutto sul fronte della propaganda. Il leghista rivendica come un successone l’aver «aperto un fronte a Bruxelles». Informa di aver fatto contattare dal ministro degli Esteri Moavero la Commissione europea «perché adempia ai doveri, mai rispettati, nei confronti dell’Italia». Annuncia che verranno tagliati i fondi di «35 euro per migrante». Significa colpire i lavoratori italiani: la maggior parte di quei fondi serve per l’assistenza. Particolare sul quale il ministro glissa.

Ma la scritta «Vittoria», che campeggia nel tweet di Salvini, non allude solo al braccio di ferro con la Ue. Sul fronte interno il bottino è anche più cospicuo. Salvini parla come capo del governo perché come tale si è comportato nel corso della crisi Aquarius, senza incontrare resistenza. Toninelli, il ministro delle Infrastrutture 5S, si è accodato. Le acrobazie con cui ieri ha tentato di rassicurare l’ala del Movimento contraria alla xenofobia dell’alleato e allo stesso tempo di confermare piena fedeltà al governo sono eloquenti: «La linea è sempre l’accoglienza» ma « il fatto che la Spagna abbia accettato l’idea di una solidarietà più collettiva è un dato importante». Toninelli si arrampica sugli specchi ma è in buona e folta compagnia. Da Di Maio al premier Conte un po’ tutta la compagine 5S è impegnata nel tentativo disperato di negare l’evidenza: la gestione piena della vicenda da parte di un ministro degli Interni che si comporta come capo del governo, tutt’altro che preoccupato per la velata allusione del Capo dello Stato: «Le frontiere sono segni convenzionali e non diaframmi». Del resto lo stesso Mattarella ha mosso anche critiche all’Europa e al trattato di Dublino.

Salvini se lo può permettere perché, almeno nell’immediato, la vicenda frutta un terzo dividendo: il ricompattamento di un centrodestra che sostiene a spada tratta il suo operato e in cui la leadership del Carroccio è uscita più che confermata dalla tornata elettorale. A porte chiuse, il leader ha strigliato quelli che avevano vagheggiato alleanze stabili con i 5S: «Si sono comportati bene ma restiamo alternativi. Il rapporto con Berlusconi è saldo. Ci sentiamo ogni giorno». Poi, in conferenza stampa, ha ribadito l’assoluta internità della Lega al centrodestra, si è augurato che tutti gli alleati di quella coalizione «vadano sempre meglio» e ha escluso accordi con i 5S per i ballottaggi.

Soddisfatto fino a un certo punto dei risultati elettorali, soprattutto per la sconfitta a Brescia, anche su questo fronte il capo ha strapazzato i suoi: «Non è che adesso potete lasciar perdere i territori». Ma è consapevole della posizione di forza che la permanenza nel centrodestra gli garantisce e non intende vederla sfumare legandosi più che tanto ai soci contraenti del governo. Anche perché Salvini non può non sapere quanto i 5S siano in sofferenza e quanto temano che l’episodio di ieri si ripeta più e più volte nei prossimi mesi, scavando un solco profondo tra la delegazione di governo e i parlamentari, e poi tra i parlamentari e la base.
Forse Di Maio reggerà l’urto ma, soprattutto se a al vertice europeo di fine giugno non verrà raggiunto alcun risultato sulla riforma del trattato di Dublino, non è affatto detto. E Salvini non ha alcuna intenzione di farsi trovare senza riparo in caso di terremoti improvvisi.