Parlare di flussi, come suggerisce il titolo di Krakow Photomonth 2018, – Space of flows – significa anche inoltrarsi in un’area di confine tra realtà virtuale e fiction. Così la immagina Salvatore Vitale (Palermo 1986, vive e lavora tra Lugano e Zurigo) – cofondatore e redattore capo di YET Magazine – con Elusive Noise: Unfolding the Virtual (2014–2018). Un “capitolo” di questo progetto (sarà presentato nella sua interezza nel 2019 a Zurigo), How to Secure a Country – focalizzato sulla sicurezza informatica (cyber security) – è esposto nelle due sale della Beta Gallery del MOCAK – Museum of Contemporary Art in Krakow. Concepito come site specific è stato realizzato con la collaborazione del musicista Filippo Corbella, dei sound designer Matthias Gilardi e Tristan Viecelli e di Mikhail Bushkov per l’installazione malware. Alla fotografia Vitale è arrivato per caso, dopo essersi trasferito in Svizzera a 18 anni, dove ha studiato Comunicazione. “Mi sono dovuto abituare ad un mondo completamente diverso da quello da cui provenivo, ma non mi sono mai posto il problema di essere uno straniero. Almeno fino al 9 febbraio 2014, giorno della votazione contro l’immigrazione di massa.” – racconta – “All’inizio ero molto arrabbiato e anche deluso, ma poi ho cercato di fare quello che so fare.” La collaborazione con centri di ricerca come il Center for Security Studies (CSS) dell’università ETH di Zurigo, che gli ha garantito l’accesso ai dati sensibili, è stata fondamentale per il fotografo che dopo un anno di lavoro preparatorio, a ha iniziato a produrre immagini partire dal 2015.

Non giudico, ma entro nel sistema per visualizzarlo: partiamo da questa tua affermazione…

Per me non è importante dare un giudizio sul sistema della sicurezza. Ovviamente ho la mia idea, ma è più interessante – ai fini di questo progetto – cercare di visualizzare qualcosa che incide sulla vita di tutti. Non solo in Svizzera, dove vivo, ma ovunque nel mondo. E’ un qualcosa di così nascosto, a volte invisibile, che si percepisce ma non si vede. Non si capisce bene come funzioni. Collaboro con le istituzioni che se ne occupano per cercare di dargli una concretezza. Non essendo un fotogiornalista, non mostro l’azione o il funzionamento, il mio lavoro è una sorta di indagine visiva in cui mi confronto con vari ricercatori, tra cui Jonas Hagman. Cerco di focalizzarmi sugli elementi ricorrenti, quindi spazi molto freddi, quasi vuoti e quella sorta di attenzione maniacale per le procedure. Nel linguaggio visivo in cui lo traduco tutto diventa molto asettico, c’è poco materiale umano.

Nell’installazione site specific per Krakow Photomonth i cavi sono anche il filo conduttore tra un ambiente e l’altro…

I cavi creano questo aspetto tecnologico. Anche Trevor Paglen ha fotografato i cavi che vanno dall’Europa agli Stati Uniti che permettono a internet di esistere. Il cavo diventa metafora di queste connessioni. Di solito i cavi si nascondono, ma io ho deciso di lasciarli a vista.

Utilizzi vari processi, stampe su tessuto, alluminio…

C’è anche una grande stampa trasparente di landscape. E’ un classico panorama svizzero con le montagne, che però fin dall’inizio del ‘900 sono state militarizzate. Ci sono tantissimi bunker nascosti che non si vedono. L’idea era quella di andare oltre l’apparenza. Ho usato anche il tessuto che è lo stesso che serve per fare immersive experience di virtual reality e la stampa su alluminio che si collega ai materiali – ferro, alluminio, rame – di cui sono fatti tutti quei tool.

Infatti, la Svizzera – paese neutrale – ha circa 300mila bunker militari che costituiscono un business: sono stati in parte riconvertiti in grandi contenitori di dati sensibili…

Dopo la caduta del segreto bancario, un paio d’anni fa, molti capitali sono usciti dalla nazione. Ma, ancora prima, gli svizzeri hanno venduto i bunker o hanno costruito data center e centri per la ricerca scientifica. Molti bunker vengono usati a scopo scientifico, però poi ci sono aziende private che li utilizzano come data center, quindi sono storage che contengono dati sensibili di tutto il mondo. Un bunker militare è di per sé una struttura perfetta per essere un data center, perché non si rischiano attacchi elettromagnetici, che è la minaccia principale e, anche in caso di guerra nucleare o catastrofe naturale, l’impianto idraulico è autosufficiente quindi i computer possono essere sempre raffreddati e l’energia elettrica è continua. La Svizzera, poi, politicamente è una nazione sicura. Non ci sono tumulti, non c’è Trump che un giorno decide di chiudere le frontiere… E’ veramente interessante osservare come vendono il loro servizio, utilizzando proprio la sicurezza di una situazione politica stabile.

Arrivi alla realtà passando per la fiction. Citi la letteratura fantascientifica di William Gibson e film come Blade Runner, Matrix

E’ un processo binario, nel senso che tanto di quello che vediamo oggi nel reale è stato costruito dalla fiction. Quindi, banalmente, se una compagnia deve costruire un data center, magari lo costruisce prendendo a modello il data center che si vedeva nei film degli anni Ottanta, perché nell’immaginario collettivo è qualcosa di riconoscibile. Così come per i robot che potrebbero avere qualsiasi forma, ma gli viene data quella degli esseri umani o degli animali, proprio per essere più accettabili. La fantascienza mi interessa non solo per il suo fine di intrattenimento, soprattutto a livello filosofico. Partendo, appunto, da Gibson che con Neuromancer ha creato il cyberpunk, passando poi per le anime con Ghost in the Shell – prima che diventasse un film per Hollywood – che indaga alcuni aspetti della natura umana.