Salvatore Piscicelli è tornato sul set dopo ben 15 anni da Alla fine della notte. Quest’estate ha girato Vita segreta di Maria Capasso, il nono film di fiction. Non è la prima volta che si prende lunghe pause tra un film e l’altro. Del resto la sua scarna filmografia – meno di dieci film in circa 40 anni – è molto eloquente circa il suo passo da cineasta, il suo tempo necessario d’autore. E non è di quelli che aspetta il finanziamento ministeriale o meglio nelle lunghe pause è sempre stato attivo tra televisione, documentari, scrittura.
In genere i grandi autori europei come te non fanno un film all’anno, hanno bisogno di una crescita naturale di un’idea, di un progetto, di non avere scadenze e pressioni per far maturare nel migliore dei modi il passaggio dalla sceneggiatura alle riprese. Nel tuo caso è così o in questi anni ci sono stati problemi produttivi?
Ci sono film che si possono e si devono realizzare in maniera fulminea (mi è capitato ad esempio con Le occasioni di Rosa), altri che richiedono una lunga gestazione. È il caso appunto di Vita segreta di Maria Capasso. Ma in ogni caso, questi quindici anni di assenza si spiegano facilmente. Dopo Alla fine della notte mi sono saltati due progetti, uno dei quali a uno stadio piuttosto avanzato. Anche per realizzare quest’ultimo film si sono voluti alcuni anni. Non è facile in questo paese fare del cinema indipendente. Le mie sono sempre storie dure, urticanti, non facilmente digeribili dal mainstream cinematografico nostrano e poi io sono un cane sciolto, estraneo a ogni tipo di consorteria politico-culturale e ai relativi legami clientelari. Comunque sono stati anni di proficuo lavoro. A parte quest’ultimo film, ho realizzato un paio di documentari, ho pubblicato tre libri, ho nel cassetto due nuove opere di narrativa e una nuova sceneggiatura (questa volta si tratta di un mélo) e sto lavorando con Carla (Carla Apuzzo ndr) a un paio di idee di serie televisive.
Il nuovo film è tratto dal tuo omonimo romanzo uscito nel 2012. Tu sei anche un vorace lettore e sei particolarmente sensibile al rapporto tra cinema e letteratura.
Trasporre un testo narrativo in un film implica trovare una chiave in termini di narratività e linguaggio cinematografico. Le possibilità sono molteplici, occorre scegliere e il fatto che sia tu l’autore del testo letterario non sempre aiuta. Romanzo e sceneggiatura sono forme di scrittura profondamente diverse, anche in termini di esperienza soggettiva. Scrivere un romanzo è un percorso eminentemente solitario; per una sceneggiatura ti puoi aprire più facilmente a collaborazioni esterne.
Per Maria Capasso si è parlato di Filumena Marturano del terzo millennio, di dark lady. Come avete lavorato, tu e Carla Apuzzo, sul romanzo? Per il ruolo della protagonista hai pensato subito a Luisa Ranieri?
L’opzione, per me e per Carla, era chiara fin dall’inizio: si trattava di attenerci strettamente al nucleo essenziale della storia, eliminando sottotrame e personaggi minori di cui era ricco il romanzo. Avevo in mente i noir americani degli anni ‘50 (in particolare Fritz Lang), la loro asciuttezza narrativa, quella meravigliosa tecnica dell’ellissi narrativa. Dal noir deriva anche la figura tipica della dark lady che qui si fonde, nel personaggio di Maria Capasso, con uno degli archetipi fondanti dell’antropologia napoletana, e meridionale, quello della figura materna come centro regolatore dell’ordine naturale ed economico della famiglia. Dunque un film con una storia fortemente radicata nel contesto della città ma anche un film fortemente caratterizzato in termini di genere.
Ho pensato fin dall’inizio a Luisa Ranieri e devo dire che l’intuizione si è rivelata giusta. Luisa ha amato da subito il personaggio e da subito ha sposato il progetto, e il suo sostegno è stato decisivo per mettere su il film. Sul set abbiamo lavorato in perfetta armonia.
Alcuni dati: durata delle riprese, location, budget, cast tecnico, produzione, distribuzione, uscita.
Il film, di budget contenuto, è prodotto da Palomar e distribuito da Vision. L’uscita è prevista nella prima metà del 2019. Lo abbiamo girato interamente a Napoli in cinque settimane, tra giugno e luglio scorsi, principalmente tra il quartiere di Monterusciello a Pozzuoli, Posillipo e il Vomero (che poi sono i luoghi che segnano la scalata sociale di Maria Capasso). Il cast annovera, accanto a Luisa Ranieri, diversi, ottimi attori napoletani, prevalentemente di estrazione teatrale, a cominciare da Daniele Russo nel ruolo dell’amante e poi antagonista di Maria. Nel ruolo di Angela, la figlia, un’esordiente, Marcella Spina, e sarà una sorpresa. Il direttore della fotografia è Saverio Guarna, col quale collaboro dai tempi de Il corpo dell’anima. La scenografia è a cura di Franz Prestieri, altro mio vecchio complice. Carla mi ha fatto da aiuto. Quanto al montaggio, lo firmo io stesso con Marco Guelfi.
Da anni sei considerato «il padre spirituale» di tutte le Nouvelle Vague partenopee. Cosa pensi dell’inflazionato filone gomorresco, della tendenza a interrompere il napolicentrismo per spostarsi più nelle periferie e in provincia e delle cicliche polemiche a partire da «Gomorra» sulla rappresentazione negativa della città?
Non ho mai pensato che esista un «cinema napoletano» in quanto tale. Napoli ha sempre avuto un ruolo importante nell’immaginario filmico italiano, e non solo italiano, e non può che far piacere, per ovvie ragioni, il fatto che oggi si girino più film e più fiction in città. Quanto all’emergere del cosiddetto «filone gomorresco», esso andrebbe interrogato come sintomo piuttosto che all’interno del vecchio e abusato schema andreottiano del «nuoce all’immagine della città». Esso segnala il fatto che il sistema criminale è estremamente pervasivo e che il suo sistema di valori coincide sostanzialmente col sistema di valori dominante nella società, quello del capitalismo ultraliberista e globalizzato ormai trionfante, per il quale vige solo la legge della concorrenza, la legge del più forte, la legge della guerra di tutti contro tutti per la sopravvivenza.
È uscito da poco per Meltemi un libro che raccoglie i tuoi scritti di cinema curato da Gino Frezza e intitolato «L’imitazione della vita» in omaggio al titolo originale de «Lo specchio della vita» del tuo amato Sirk.
La parola «imitazione» è da intendersi qui nella doppia accezione: riprodurre con la maggiore approssimazione possibile, ma anche contraffare, simulare. Il cinema si colloca esattamente in questa ambivalenza. Sono contento del libro, anche per il fatto che è nato dall’iniziativa di alcuni amici critici, che voglio ringraziare ancora una volta. Il volume testimonia, mi pare, dell’esistenza di un «fil rouge» che attraversa e lega la mia riflessione critica sul cinema con la mia pratica da cineasta.
All’inizio dell’anno è stato pubblicato anche da Intra Moenia «La cucina di Addolorata», il tuo ricettario familiare che è anche uno spaccato socioantropologico della tua Pomigliano degli anni ’50.
Come sai, quel libriccino di cucina era nato in un ambito strettamente privato, come un omaggio alla memoria di mia madre, ma sono contento che, uscito con Intra Moenia, abbia avuto un certo riscontro. Personalmente, questa cucina «materna», tradizionale, come cuoco di casa, l’ho praticata e la pratico tuttora, il che non esclude ampie aperture verso altri territori, dal Giappone all’India, dalla Francia al Medio Oriente. Mai rinchiudersi in una sola immagine identitaria…