George Clooney con i suoi «Monuments Men» ha mandato in tilt la sicurezza. Sala delle conferenze stampa in overbooking, gente aggrappata sulle scale, servizio di sicurezza che mostra i muscoli impedendo l’accesso al piano. Ma Monuments Men (fuori concorso), nelle nostre sale il 13 febbraio (Clooney sarà in tour italiano a Milano e lo vedremo stasera ospite da Fazio in Che tempo che fa su Raitre) – era uno degli eventi annunciati della Berlinale, di quelli da tappeto rosso e folla delle grandi occasioni (la proiezione stampa si è anche interrotta per il malessere di uno spettatore, per fortuna nulla di grave) che ogni direttore di festival non si lascia scappare. E non lo ha fatto Dieter Kosslick che lo ha voluto in concorso. Il film di Clooney, inoltre, appena uscito negli Stati uniti con risultati per ora poco incoraggianti (lui insieme a Grant Heslov è anche sceneggiatore e produttore), ha nell’elenco delle coproduzioni gli studi di Babelsberg, e la Germania nella selezione è quest’anno straordinariamente presente in tutte le sezioni con i suoi film e anche come partner produttivo – un po’ il modello francese al festival di Cannes.

Berlinale 2014. L’apertura è stata offuscata dai giochi. Nel mezzo di Potsdamer Platz campeggia una fiamma olimpica color arcobaleno: Rainbow Flame, con sotto scritto Love is no propaganda, davanti alla quale venerdì sera si sono radunati gli attivisti per i diritti civili protestando contro la repressione in Russia e la politica omofoba di Putin. Berlino ha una tradizione di cultura gay lesbica transgender radicata, intrecciata nel tempo agli immaginari più sovversivi di lotte e resistenze che rendono ancora più intollerabile l’omofobia per legge proclamata dal parlamento russo. Merkel, appunto, ha scelto di non andare, a differenza del governo italiano, che ha deciso di esserci per «sensibilizzare» il mondo sulla questione. Ma certo da noi la Famiglia continua a essere eterosessuale per antonomasia, e sui matrimoni gay la diffidenza è bipartisan.

In un certo senso è un po’ la storia in filigrana di Monuments Men: ovvero cosa significa una guerra anche la più giusta se con sè porta la distruzione della storia, dell’arte, di ciò che è la ricchezza preziosa per l’umanità? E nessuna ideologia può dare qualcosa di buono se come modalità utilizza l’annientamento di una bellezza collettiva. I nazisti che bruciano i Picasso e altre meraviglie nella loro ritirata non possono non farci venire in mente i talebani che distrussero i Budda. E al tempo stesso però Cloo>ney che nei panni di Frank Stoker, storico dell’arte, figura ispirata a George Leslie Stunt, conservatore al Fogg Museum di Harvard si ostina a salvare l’arte dalle bombe, ci dice che anche chi sta dalla parte della ragione, i buoni in questo caso, come gli americani che liberano l’Europa da Hitler, non sembrano mettere la cultura, e la sua salvaguardia tra le priorità; perciò si bombarda e nelle macerie finiscono anche le opere più preziose, insieme alle vite umane.

All’origine del film c’è il libro di Robert M.Edsel (Sperling&Kupfer), i Monuments Men sono un gruppo speciale di soldati, intellettuali, curatori di musei, architetti, che su mandato di Roosevelt (il film è un omaggio caloroso al presidente americano e alla sua politica illuminata ) vengono mandati in Europa alla ricerca dei capolavori trafugati dai nazisti. E il loro lavoro si scontra spesso, quasi sempre, con le priorità militari, con generali ostili, che li guardano come dei pazzi, o almeno con un peso in più, per chi come loro ha di meglio da fare. Mentre quei tipi che non sanno nemmeno tenere un fucile in mano e sono stati riformati perché non idonei alle armi, se ne vanno in giro a creare problemi per qualche quadro. E se non ci fosse stato Roosevelt, appunto, pensiamo un altro presidente, probabilmente quelle opere sarebbero del tutto scomparse…

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Clooney organizza il suo gruppo «reclutando» vecchi amici (nel cast Matt Damon, Bill Murray, John Goodman, Cate Blanchett) coi quali nonostante l’obiettivo specifico si troverà a combattere la guerra «vera», scoprendo in prima persona l’olocausto, la morte, la devastazione … Li aiutano tanti personaggi lungo la strada, preti che cercano di nascondere i beni d’arte più preziosi, e la responsabile del Jeu de Pomme a Parigi che ha catalogato tutte le opere scomparse (è Blanchett) e dopo una prima diffidenza cede al conservatore Matt Damon -«Le prenderai tu per qualche museo americano» sibila nel primo incontro.

La cifra che Clooney sceglie per questo suo nuovo film da regista non è però quella tradizionale dell’azione eroica: il suo appare piuttosto come un viaggio nel cinema, e nella sua storia, su quell’epoca, e sull’immaginario tra Europa e America. Clooney fa un film quasi alla Tarantino di Inglourious basterds ma di registro completamente rovesciato, tornando sugli stessi luoghi e prendendo come riferimento non i b-movie ma il cinema classico. E infatti il film è punteggiato di omaggi, tra cui si muovono i suoi strampalati eroi, goffi e fuori posto, in bilico sui registri del melò sentimentale e del comico sotterraneo. Per il tedesco giovane tre uomini seduti in terra, lui e due americani, a fumarsi una sigaretta è John Wayne, nell’Howard Hawks di El Dorado (1966). E quel ragazzino che spara addosso a due dei nostri, esce diritto da Germania anno zero, disperato dodicenne come l’Edmund rosselliniano, che finirà in un campo di prigionia insieme a altri ragazzini come lui.

Seguendo l’arte i «nostri» trovano la vita, che le due cose non si separano, l’oro fatto con i denti degli ebrei nascosto nelle miniere insieme a Rembrandt, le case vuote a Parigi dei migliaia di ebrei deportati, e i depositi con loro cose stipate dentro.

Fotogrammi dalla storia del cinema ma in chiave presente. Il film e scassatissimo, e Clooney che somiglia a Cary Grant, dà l’impressione di non controllare fino in fondo i registri di comicità strampalata e surreale. Però l’aggressività della critica americana appare anch’essa fuori misura. È uno strano film questo, totalmente fuori dal tempo, rispettoso eppure col coraggio di rompere il mito dell’eroe a tutto tondo. Un’antiretorica sottile e surreale.