Al di là di quanto sia criticabile il ruolo della ministra Boschi nella vicenda delle quattro banche oggetto del decreto «salvabanche», ci sono questioni in ballo ben più sostanziali. Meglio quindi uscire da polemiche contingenti o personali e affrontare quelle davvero significative.

Sta divenendo familiare un nuovo termine che curiosamente compare nelle discussioni su facebook, nei forum e simili. Il termine è bail-in. Abbiamo già visto che la comparsa di termini tecnici nei discorsi dei non addetti è la spia di rivolgimenti in profondità. Si è visto nel 2011 quando tutti si sono messi a parlare di spread. E oggi? Molte banche sono state salvate dagli stati (Usa, Germania, Regno Unito, ecc.) che hanno pagato coi soldi dei contribuenti i buchi di bilancio causati dalle gestioni di tali istituti, piuttosto inclini ad attività che potremo qualificare come speculative. Da più parti si è evidenziata l’ingiustizia e l’inopportunità di tale soluzione («i nostri soldi ai banchieri!») considerando che le banche non sono divenute realmente nazionalizzate; anche i poteri dominanti hanno un po’ archiviato tale opzione, considerando che sarà difficile trovare i soldi per ulteriori giganteschi esborsi.

Ma l’alternativa qual è? Mentre i salvataggi sono detti bail-out, l’alternativa è il bail-in. La prima opzione significa soldi dall’esterno (out), la seconda dall’interno (in). Cioè o dallo stato o da qualcosa o qualcuno interno alle banche. E cioè azionisti, obbligazionisti e depositanti. È uno dei pilastri della unione bancaria, una forma di coordinamento a livello europeo per la vigilanza sulle banche e la gestione delle situazioni di fallimento. È in studio da diversi anni ed è stato recepito in Italia nelle ultime settimane col D. Lgs. 180/2015.

Il governo Renzi in merito alle quattro banche ha anticipato l’applicazione di tali regole (in vigore da gennaio) in modo selettivo: ha fatto pagare il conto ad azionisti e detentori di obbligazioni risparmiando i correntisti (che avrebbero perso i soldi sopra i 100mila euro in caso contrario). Così può vantarsi di aver avuto un impatto sociale più ridotto e di non aver speso i soldi dei contribuenti.

Ma è proprio vero?

È vero che i risparmiatori colpiti sono stati disboscati: coloro che manifestavano in piazza sono coloro che comprando obbligazioni avevano prestato soldi alla banca con una prospettiva di un guadagno ma anche di un rischio.

L’operazione è complessa: si è separata la parte «buona» delle banche da quella «cattiva». La prima dovrà essere venduta. La seconda è imbottita di crediti inesigibili e rimasugli e verrà gestita in modo da ricavarci il più possibile. Entrambe sono in mano a un fondo di risoluzione finanziato dalle altre banche (al momento hanno scucito solo le tre più grandi) e garantito da Cassa Depositi e Prestiti. Cioè dallo Stato (che fa pure uno sconto fiscale alle banche di 0,65 miliardi…).

Quindi che il contribuente non paghi non è del tutto vero, a fronte del fatto che qualcuno le nuove banche ripulite delle passività se le comprerà senza accollarsi le perdite. Sarà per questo che il governo non ha nemmeno preso in considerazione le alternative proposte dalle opposizioni (usare il fondo tutela depositanti; usare le plusvalenze delle quote rivalutate di Bankitalia; far pagare direttamente dal Mes che poteva entrare nell’azionariato)?

Il tutto senza che si faccia nulla perché non ci sia più bisogno di trovare su chi far crollare le perdite dovute a una funzione sempre più speculativa delle banche e del conseguente fallimento. O per ricondurle alla loro funzione più consona: sostegno all’economia reale.