L’ennesima strage nel Mediterraneo ha confermato, in maniera spietata e drammatica, la validità di quanto in molti affermiamo (inascoltati) da tempo: sull’immigrazione si deve cambiare tutto.

Papa Francesco ha utilizzato parole pesanti come pietre: «ora è il momento della vergogna». E non si può non convenire con il Pontefice, la cui voce, dolorosa e potente, prova da tempo a richiamare la comunità internazionale alle proprie responsabilità.

Del resto ha detto bene Enrico Letta (uno dei pochi che può affermare di aver utilizzato le proprie funzioni istituzionali per fare molto sul piano del soccorso in mare) quando ha dichiarato che “otto anni dopo Lampedusa è sempre tragedia e impotenza”.

Otto anni di sostanziale immobilismo restituiscono così il senso di una drammatica stasi morale, civile, politica. Per dirla in modo un po’ schematico, infatti, si deve ricordare che i Paesi europei in tutto questo tempo hanno voluto accelerare molto poco sul piano della collaborazione e della condivisione preferendo a ciò la conferma dello schema del regolamento di Dublino che pure il Parlamento europeo aveva profondamente cambiato.

E in questa cornice si è inoltre rafforzata la pericolosa filosofia dell’esternalizzazione dei confini europei che ha visto crescere, invece che il corretto potenziamento delle missioni in mare, i tentativi di arginare gli arrivi realizzando aree di contenimento o accordi volti a delegare ad altri la gestione della materia.

I campi di concentramento e detenzione e il sostegno alla guardia costiera libica, la delega in bianco (e pure ben remunerata) a Erdogan, la decisione di chiudere sostanzialmente l’accesso attraverso la rotta balcanica: tutti questi passi sono alla fine tenuti assieme dalla stessa filosofia di fondo.

Servirebbe, dunque, il coraggio di un’altra politica capace di provare a percorrere strade diverse. Quali? Vediamone alcune.

Innanzitutto quella della volontà di superare effettivamente l’attuale schema sulla migrazione ed asilo, dotando l’UE, al contrario di quanto proposto recentemente dalla stessa Commissione europea, di una strategia complessiva capace di valorizzare la condivisione della responsabilità dell’accoglienza e svincolando proprio la richiesta d’asilo dal Paese di primo approdo.

Poi, la necessità di insistere sulla legalizzazione di alcuni canali di accesso alla stessa Europa (particolarmente presidiati e controllati, ovviamente) e la realizzazione di veri corridoi umanitari per svuotare alcune aree particolarmente critiche (penso alla Bosnia, alle isole greche e agli stessi campi libici).

Inoltre, il bisogno urgente di costruire una grande missione di soccorso europeo capace di collaborare con le organizzazioni non governative.
Infine, ovviamente, vi è l’enorme questione costituita dal sostegno a forme intelligenti di cooperazione allo sviluppo e l’urgenza di politiche riguardanti aree del mondo in grande difficoltà sul piano climatico, economico, sociale e del rispetto dei diritti umani che producano un’alternativa credibile alla necessità di “partire”.

Esattamente l’opposto di quanto fatto in questi anni in cui, attraverso l’utilizzo dei fondi fiduciari, abbiamo assistito al dirottamento di risorse destinato allo sviluppo per finanziare la gestione esternalizzata delle frontiere della UE (come abbiamo denunciato dal Parlamento europeo la Guardia costiera libica è stata spesso finanziata proprio in questa maniera).

Tema, questo, enorme, che l’Europa affronta percorrendo itinerari contraddittori: da una parte è il soggetto al mondo che investe più risorse dall’altra fatica a creare strategie coerenti tra gli stessi Stati membri finendo per “bruciare” denaro in numerosi rivoli.

È ovvio che affermare tutto questo vuole dire andare incontro ad un’obiezione: così facendo si rischia di dare forza al messaggio della destra peggiore. La quale, in assenza di politiche adeguate sul piano della protezione sociale ha costruito consenso giocando le proprie carte sulla mobilitazione di una parte dei cittadini più deboli proprio sul piano sociale. Cittadini che si sono ritrovati in un ragionamento molto semplice e diretto – si pensi prima a noi -.

La cosa ha finito per condizionare buona parte del dibattito sull’immigrazione, permanentemente “drogato” dalla questione del consenso.

Si deve, a mio modesto avviso, avere il coraggio di interrompere questo gioco al massacro delle buone politiche. E insistere su due terreni diversi. Quello, per l’appunto, di un evidente cambio di passo su Libia, soccorso, emersione dei flussi, politiche di integrazione, libera circolazione all’interno dei confini europei.

E, poi, quello che ha proprio senso in sé: la definizione di priorità sul terreno economico e sociale in grado di far sentire meno sole le persone più fragili di fronte al tempo che viviamo. Che significa, anche a partire dai fondi presenti in Next Generation EU, aggredire i temi della precarizzazione del lavoro, della condizione salariale, del diritto alla casa e alla salute, della lotta alle povertà.

Questioni cruciali che il cinismo di alcuni (e la pavidità di altri) ha artificiosamente messo in contrapposizione alla ineluttabile responsabilità di salvare le vite.

* Europarlamentare
del Partito democratico