Senza sbocchi, malgrado i segnali positivi degli ultimi giorni, la crisi in cui è sprofondato il «più giovane stato del mondo». L’ex vicepresidente Riek Machar, accusato di voler rovesciare con un golpe il presidente Salva Kiir, ha dichiarato di non fidarsi dell’offerta di tregua che il governo ha avanzato sotto la pressione dei leader regionali e mondiali (ultima a innervosirsi la Cina, che in Sud Sudan ha parecchi affari in ballo).

«Non può esserci un cessate-il-fuoco senza che venga prima stabilito un meccanismo di controllo» ha detto Machar, che sostiene di avere un team pronto all’eventuale negoziato, ma non ritiene credibile la proposta unilaterale di tregua. Il governo nei giorni scorsi ha liberato due degli oppositori vicini a Machar arrestati all’indomani del presunto tentativo di golpe, il suo collaboratore Deng Deng Akon e l’ex ministro della Cultura Peter Adwokma. L’inviato della Casa bianca Donald Booth si augura che partecipino «in modo costruttivo agli sforzi di pace in atto». I “ribelli” però chiedevano il rilascio di 11 persone.

Intanto se a Juba è tornata una relativa calma, la tensione resta alta nel Jonglei State. L’esercito di Salva Kiir ha riconquistato la capitale Bor, ma il resto del territorio è sotto il controllo delle truppe fedeli a Machar. Il quale dichiara la propria “sovranità” anche su vaste aree dell’Upper Nile State e sull’intero Unity State, strategico per il petrolio. Il ministro dell’Informazione Michael Makuei Lueth fa sapere che il governo avrebbe sospeso i piani di un’offensiva per riconquistare almeno la capitale di Unity, Bentiu.

Quasi due settimane di combattimenti hanno già provocato un migliaio di vittime. Delle oltre 120 mila persone che sarebbero state costrette a lasciare le proprie case, solo la metà ha trovato rifugio nei compound delle Nazioni unite. Anche per questo l’Onu vorrebbe raddoppiare la sua presenza nel paese portandola a 12 mila uomini. Ieri sono giunti a Juba 72 soldati del Bangladesh addestrati nella Repubblica democratica del Congo.