La crescita dei casi e dei decessi prosegue come da un mese a questa parte. Anche i dati di ieri – 10.554 nuovi positivi al coronavirus e 48 vittime di Covid – si adattano perfettamente ai grafici disegnati nelle ultime settimane. Il report settimanale dell’Istituto Superiore di Sanità diffuso il venerdì conferma il quadro, e dà qualche numero in più. L’incidenza è a 98 casi settimanali per centomila abitanti. È il quarto aumento consecutivo, +27% nell’ultima settimana. «Una situazione che dal punto di vista dell’evoluzione del quadro epidemiologico mostra una tendenza ad un certo peggioramento» la definisce il direttore generale della prevenzione al ministero della salute Gianni Rezza presentando il report. «Ma stiamo ben al di sotto dei valori che si registrano nell’Europa orientale e centrale».

IN AUSTRIA, AD ESEMPIO, l’incidenza ha toccato quota 994, dieci volte la nostra. Anche il quadro italiano è frastagliato, se lo si scompone per geografia ed età: in Alto Adige l’incidenza è a 406, in Friuli-Venezia Giulia a 289, in Puglia, Basilicata e Sardegna 40 o anche meno. Tra i bambini delle elementari, l’incidenza è più che doppia rispetto alla media nazionale.

L’indice Rt a 1,21 indica che il picco di questa ondata non è stato ancora raggiunto. La domanda, a questo punto, è se i numeri italiani siano destinati a crescere fino ai livelli austriaci o tedeschi. A nostro favore, c’è una copertura vaccinale leggermente più elevata (78% contro 70% in Germania e 68% in Austria). Di contro, l’Italia ha la metà dei posti letto di terapia intensiva della Germania, e questo rende la nostra sanità più fragile di fronte alle ondate pandemiche.

È utile paragonare la situazione italiana a quella della settimana 11-18 ottobre 2020, l’inizio della seconda ondata, con un numero giornaliero di casi positivi analogo a quello odierno. Oggi il virus è più contagioso per colpa della variante Delta, ma disponiamo di vaccini che diminuiscono il rischio di finire in ospedale. Allora in terapia intensiva c’erano 7-800 persone contro le 500 attuali, un terzo in meno. Proporzione simile nel resto dei reparti: settemila i ricoverati di ieri, 4600 quelli di oggi.

L’ondata dell’autunno del 2020 raggiunse il picco a metà di novembre. Non si fermò per naturale esaurimento, ma fu sconfitta dal sistema delle zone colorate. Gli studi dimostrarono che quelle arancioni e rosse – ben più delle gialle – erano in grado di riportare sotto controllo il virus.

QUEL SISTEMA È TUTTORA vigente. Ma i criteri per assegnare i colori sono stati ammorbiditi più volte su pressione dei presidenti di regione. L’ultimo ritocco è della scorsa estate ed evitò che le misure anti-Covid rovinassero il ferragosto. Il risultato è che le restrizioni oggi scattano con notevole ritardo. Con le regole in vigore un anno fa, diverse regioni sarebbero già in zona gialla e arancione, mentre adesso l’Italia è tutta bianca e tale resterà per i prossimi sette giorni. Si salvano per pochi decimali anche la provincia di Bolzano e il Friuli-Venezia Giulia, dove oltre il 14% dei posti letto è occupato da pazienti Covid, mentre la soglia per la zona gialla è il 15%.

Il presidente dell’Iss Silvio Brusaferro non esclude che i criteri siano rivisti. «Dobbiamo utilizzare di volta in volta gli indicatori più adeguati alla situazione epidemiologica», ha spiegato. Ma per il momento non cambierà nulla. Da un lato, dunque, un virus più contagioso e misure meno tempestive; dall’altro i vaccini. L’esito di questo scontro determinerà l’entità della quarta ondata.

Al ministero della salute si spera che la terza dose sposti a nostro favore gli equilibri, e si valuta di accorciare da 6 a 5 mesi i tempi di attesa tra la seconda e la terza dose come proposto dall’assessore alla sanità del Lazio Alessio D’Amato. Rezza non è contrario: «Anticipare il richiamo non dovrebbe avere effetti negativi e potrebbe dare qualche possibilità in più per accelerare la campagna. È un elemento da valutare con attenzione».

L’OMS PERÒ CHIEDE di rallentare con le terze dosi, visto che in molti paesi non sono ancora arrivate le prime. «Non bisogna mettere in contrapposizione le due questioni» spiega Rezza. «Se si ha la possibilità, bisogna proteggere la propria popolazione e allo stesso tempo garantire l’accesso ai vaccini a livello globale. Insieme ad altri paesi europei, attraverso programmi umanitari come Covax si stanno facendo molte donazioni di vaccini ai paesi privi di risorse».

In più, ragioni tecniche ci impediscono di essere troppo altruisti. «Sono vaccini difficili da conservare, in molti paesi potrebbe essere difficile garantire la catena del freddo». Per la verità, il programma Covax ha fornito solo 500 milioni di dosi dei due miliardi promessi per il 2021. E se Usa e Ue hanno investito molti miliardi di euro nello sviluppo di vaccini adatti solo ai ricchi, significa che la scelta di escludere i paesi poveri è stata presa a tavolino.