E dire che ce n’eravamo accorti, ma per fortuna c’è l’Istat che conferma con le sue rilevazioni le nostre percezioni quotidiane: i salari degli italiani (tecnicamente le “retribuzioni contrattuali orarie”) nel 2014 sono saliti solo dell’1,3%, dato che rappresenta il più basso dal 1982. Va anche detto, per completezza, che l’anno scorso l’inflazione è stata molto bassa, quasi prossima allo zero (+0,2%), ma acquisito questo dato non è che comunque le buste paga ci facciano una gran figura. Oltretutto quel numero rappresenta una media, perché ci sono lavoratori con il contratto già bello che scaduto, o che addirittura non lo rinnovano da anni, come ad esempio quelli del pubblico impiego.

Anche su questo punto ci viene in soccorso con le sue statistiche l’Istat, rivelando che in dicembre erano più i dipendenti senza contratto rinnovato che quelli che avevano già siglato: il 55,5% a fronte di un più “fortunato” 44,5%. Questo sul totale dell’economia, includendo quindi anche i pubblici, che con il loro “congelamento”, risalente ormai al 2009 (prima Berlusconi, poi Monti, Letta e Renzi: hanno contribuito tutti), alzano di parecchio la media. Se ci concentriamo sul solo settore privato, i lavoratori in attesa di una firma delle imprese (con relativo aumento) scendono al 42,4%.

I contratti che aspettano il rinnovo, calcola l’Istat, sono 37, e coinvolgono 7,1 milioni di dipendenti; 15 di quei 37 appartengono alla pubblica amministrazione, e riguardano 2,9 milioni di persone. Un’attesa che forse vuole emulare quella di Penelope: in media 37,3 mesi (21,7 per i soli privati).

Giusto per non citare solo chi attende, nominiamo qualcuno dei più “fortunati”: i settori con i maggiori incrementi sono stati tlc (+3,5%), gomma e plastica (+3,3%), tessile e pelli (+2,9%). Nulle le variazioni del commercio.

E però qualcuno si muove, per reclamare il proprio contratto. Si tratta dei bancari, che già reduci da anni di ristrutturazioni (causa crisi, fusioni bancarie e l’avvento di Internet, che ha rivoluzionato letteralmente il settore), vogliono almeno sorridere guardando la propria busta paga. Oggi scioperano, scendono in piazza, urlano in corteo contro l’Abi (l’associazione delle banche italiane) dopo che nel novembre scorso si sono rotte le trattative.

La protesta è stata indetta unitariamente da tutte le sigle sindacali, che spiegano di essersela presa in particolare con «la decisione unilaterale dell’Abi di disdettare e disapplicare, a partire dal prossimo 1 aprile, i contratti collettivi». «È un provvedimento senza precedenti in nessun altro settore – incalzano le organizzazioni di categoria – Dei 416 contratti in vigore nel privato e nel pubblico, infatti, solo quello dei bancari è stato disdettato».

L’obiettivo dell’Abi, nell’immediato, sarebbe quello di «bloccare la crescita automatica degli stipendi rispetto all’inflazione», ma più a lungo termine, i sindacati vedono una minaccia ancora più grossa: «L’Abi punta a smantellare il contratto nazionale di categoria e le tutele contrattuali vigenti, sostituendolo con contrattazioni azienda per azienda. Questo creerebbe un’enorme disparità di trattamento economico e normativo tra i lavoratori e le condizioni per ulteriori e selvaggi tagli di posti, dopo i 68 mila già eliminati negli ultimi 15 anni».

Una specie di corsa al dumping e al far west che i bancari tenteranno di respingere non solo con lo sciopero, ma anche con quattro manifestazioni di carattere macroregionale che si svolgeranno a Milano, Ravenna, Roma e Palermo. Molte filiali resteranno chiuse o lavoreranno molto a rilento. «Se le banche non cambiano atteggiamento, andremo avanti a oltranza chiedendo l’intervento del presidente Renzi». an. sci.