Non lo si crederebbe ma in Italia è stato Carlo Bo, maestro così austero, il critico più attento e fedele a Françoise Sagan (1935-2004) fino a sentirsene irretito e a chiedersi se non esistesse una piège Sagan, una «trappola Sagan» capace di catturare fatalmente, e ogni volta, il lettore. Il libro che l’aveva rivelata diciottenne, Bonjour tristesse, non era ancora ufficialmente saganiano in quanto simulava la freschezza adolescente e l’insolenza di una generazione presto divenuta rivoltosa. Lì semmai c’era il tono, la piccola musica che chiudeva il giro di frase insinuandovi un’ironia ritmata come sulle punte e a passi di donc e di bref. Sagan sarebbe diventata sé medesima solo con i romanzi del decennio successivo (in realtà racconti lunghi, tutti sulle 100-120 pagine), opere annunciate da una vita mondana debordante e sempre in prima pagina. E questa è la Sagan di istantanee volentieri scambiate per dichiarazioni di poetica come la pelliccia di giaguaro sui jeans e le auto fuoriserie, la frequentazione del Tout Paris, i festini nelle ricche dimore di Passy, le vacanze a Saint-Tropez con una banda di perdigiorno mentre a pochi passi la sua gemella non meno scandalosa, Brigitte Bardot, sta girando Et Dieu créa la femme con il pigmalione Roger Vadim.
Ma sono profezie di una fine precoce e rovinosa da parte di chi ostenta complicità con un mondo che intanto sta mettendo in mora, sono copie stravolte di Scott Fitzgerald dirà, anche, riservandosi la parte di Zelda. Il suo sguardo è distaccato, inderogabile, il suo stile ha la monotonia e l’ossessione cognitiva degli scrittori che, per proverbio, riscrivono a oltranza lo stesso libro. Quasi fosse una Simenon in sedicesimo, il suo spazio/tempo è circoscritto in quelli che a Parigi si chiamano beaux quartiers, i personaggi sono scelti tra una fauna nemmeno di borghesi in senso stretto ma piuttosto di giovani mondani che bruciano tra un cocktail party e l’altro enormi quantità di un plusvalore di cui sembrano ignorare la consistenza e l’origine: la bellezza e il successo sono i valori esclusivi di costoro mentre ogni convinzione morale, politica e religiosa viene riassorbita, e di fatto cancellata, dalla pura dinamica delle relazioni sentimentali, né va dimenticato che questa giovane autodidatta ha amato Stendhal e Gide e che lo pseudonimo «Sagan» viene dalla Recherche.
Lo schema da cui muove è quello del romanzo rosa, sia pure il rosa shocking, un triangolo al cui vertice una donna è combattuta fra due uomini (in effetti gli specchi di due parti di sé) che mostrano un profilo opposto e complementare perché l’uno rappresenta l’agio, il benessere, la sicurezza mentre l’altro promette l’avventura, il rischio, l’esplorazione di un universo esistenziale ancora ignoto. È il caso del romanzo di poco posteriore all’esordio e che molti ritengono il suo apice, Le piace Brahms?, ora riproposto nella versione sempre verde di Maria Heller (TEA, pp. 138, € 12,00). Qui al centro c’è Paule, decoratrice di interni, una donna autonoma, già divorziata e debitamente disincantata eppure anche lei presa tra due fuochi perché da un lato ha Roger, un uomo ricco, forte e però infedele mentre dall’altro le si affaccia Simon, che è appena un ragazzo, tenero, fragile, edipico e innamorato perso. Paule sconta i continui andirivieni fra l’uno e l’altro, ora attratta dalle sorprese di Simon ora invece aggrappata alle certezze che le offre Roger. Paule si interroga continuamente, cerca di orientarsi ma non trova l’equilibrio, in realtà non ama e «si lasca amare, perdutamente» perché, è scritto nell’incipit, ha cercato qualcuno che avesse bisogno di lei, «del suo calore per dormire e svegliarsi, ma non c’era nessuno» e pertanto rimugina pian piano «con dolcezza, con amarezza, la propria solitudine»: sceglie infine Roger e il suo ferreo principio di realtà rovesciando lo schema del Tito e Berenice di Corneille che Sagan ha veduto a teatro nella magnifica interpretazione di Gérard Philipe, un amico appena perduto. (La scrittrice ama dissimulare e anzi liofilizzare i riferimenti letterari e qui va aggiunto che il teatro fu per lei una grande passione ma non sempre sostenuta – quanto alle pièces firmate – da un talento corrispettivo.
Quanto al cinema, il solo adattamento che gradisse è proprio quello di Le piace Brahms?, 1961, per la regia di Anatole Litvak con una indimenticabile Ingrid Bergman nella parte di Paule ma continua tuttavia a mancarle la consonanza che probabilmente le avrebbe garantito il registro intimista di un Claude Sautet, firmatario fra gli altri di Les choses de la vie-L’amante, 1970, un film di chiara ispirazione saganiana). La struttura triangolare e l’immagine della donna divisa in due torna nei romanzi successivi, quali Le nuvole meravigliose (’61), La chamade (’65), Un po’ di sole nell’acqua gelida (’69) e nel prezioso divertissement del ’68 di argomento hollywoodiano che contamina il giallo e il rosa intitolandosi La guardia del cuore (ora a cura di Daria Galateria, nel catalogo di Sellerio). Il tempo avrebbe serializzato e perciò depauperato quello schema triangolare che a momenti mostra una residua vitalità (è il caso, per esempio, di Il letto disfatto del ’77), ma con il passare degli anni sembra arrendersi agli automatismi della scrittura di genere tra le evanescenze di una produzione inesausta (la bibliografia saganiana conta una quarantina di titoli fra romanzi, racconti e pièces teatrali) e una vita privata allo sbando, oramai ipotecata dalle malattie, dai problemi economici e da reiterati processi per uso di stupefacenti.
Di un ultimo soprassalto della ispirazione è perciò testimonianza il progetto, molto ambizioso, di un romanzo non più triangolare ma corale su quel mondo, il suo mondo, che alla fine la scrittrice osserva come fosse un microcosmo infestato da ambigue entità, da lèmuri e da piante grasse. Di un tale progetto sopravvive I quattro angoli del cuore (traduzione di Federica Di Lella e Maria Laura Vanorio, Solferino, pp. 200, € 17,00), il cui testo proviene da una redazione certo non definitiva se lo stesso curatore, Denis Westhoff figlio della scrittrice, si sente in dovere di affermare in una prefazione reticente ed estranea a qualunque principio di filologia: «(…) ho apportato le correzioni che mi sembravano necessarie, facendo attenzione a non alterare né lo stile né il tono del romanzo, in cui ritrovavo, pagina dopo pagina, l’assoluta libertà, il distacco, l’umorismo graffiante e l’audacia al limite della sfrontatezza, che caratterizzano l’opera di Françoise Sagan». Altro non è dato sapere sulla natura e l’entità di simili e sul serio allarmanti «correzioni» circa un’opera che va presa, a questo punto, con beneficio di inventario. Del traliccio che qui si presenta, il titolo allude ai componenti di una famiglia patriarcale dell’eterno universo borghese dove si interpone, nei modi insinuanti di un angelo sterminatore, la figura di Fanny, il cui amore «senile» vale la distruzione del quadro ambientale ma contemporaneamente la redenzione del «folle» Lodovic, il suo giovane amante. Stavolta non è scissa o ambivalente la figura della donna ma, al contrario, riflette la doppiezza degli esseri umani che la stanno accerchiando, stavolta è lei a denunciarli e chiamarli finalmente in giudizio: La società giudica i suoi frutti, ciò la rende feroce, scrisse a suo tempo Françoise Sagan.