Con la scomparsa a settantanove anni di Safi Faye se ne va un altro pezzo di cinema storico delle Afriche, quel cinema che dagli albori degli anni Sessanta aveva scritto in prima persona la narrazione di un continente, liberandosi dal peso delle colonizzazioni per restituire in soggettiva, dai propri punti di vista, con linguaggio rivoluzionario e fraseggi diegetici sovversivi, sia il passato sia il presente di sé; la quotidianità, il vivere in ambienti in trasformazione di tanti paesi a sud del Sahara. facendo così emergere anche le molteplici istanze di conflittualità, necessità, sensualità. Nasceva un cinema che si ri-prendeva la propria cultura elaborando un immaginario potente capace di stravolgere gli stereotipi e di far coesistere i primi passi filmici e la modernità che ovunque nel mondo stava scardinando regole e sintassi.

IN TALE percorso si inserisce in maniera esemplare Safi Faye, nata a Dakar nel 1943, quindi cineasta più giovane dei primi pionieri del nuovo cinema subsahariano – un nome su tutti, quello del connazionale Ousmane Sembene. Eppure figura imprescindibile e pioniera a tutti gli effetti, che lascia un marchio indelebile nel 1975 quando realizza Kaddu beykat (Lettera contadina), che non è solo il suo esordio nel lungometraggio, ma il primo lungo diretto da una regista subsahariana.
In primo piano nel raccontare la condizione delle donne, il loro sfruttamento e la loro ribellione, Safi Faye con Kaddu beykat realizza uno splendido film che manipola i confini dei generi (il documentario/la finzione – «Non riesco a stabilire una frontiera chiara tra la finzione e il documentario, la finzione è recitazione, ma proviene tanto dalla vita quotidiana quanto dall’immaginazione», diceva in un’intervista del 1997 a Olivier Barlet per «Africultures») nel filmare i rituali delle donne nel lavoro svolto ogni giorno nelle campagne.
Film di sfida e di sofferenza fisica, inscritto in un bianconero pregno di realismo e in gesti resi ipnotici dalla ripetizione, Kaddu beykat rivela al mondo una cineasta la cui filmografia, nonostante un numero esiguo di opere, si sarebbe posta come punto di riferimento, ancora oggi da studiare, (ri)vedere, scoprire per coglierne gli innumerevoli indizi seminati.

Nata da una famiglia aristocratica originaria di Fad’jal, a sud di Dakar, Faye ottiene il diploma di insegnante nei primi anni Sessanta e comincia a svolgere questa professione. La svolta avviene nel 1966 quando durante un festival nella capitale senegalese incontra Jean Rouch, che la incoraggia a dedicarsi al cinema. Studia etnologia a Parigi, recitando in un film del regista francese, Petit à petit (1971) e ottiene un master in etnologia alla Sorbona . Sono però anche gli anni in cui Faye intraprende il proprio personale viaggio poetico, politico, sociale usando le immagini in movimento. Che inizia in Francia con i cortometraggi La passante (1972), da lei anche interpretato, nel quale dà conto delle reazioni degli uomini mentre cammina in una strada parigina, e Revanche (1973), realizzazione collettiva insieme a altri studenti a proposito di un uomo che vuole gettarsi dal Pont Neuf. Kaddu beykat è, quindi, anche il suo primo film girato in Africa alla cui base sta un’inchiesta effettuata proprio nel villaggio d’origine della famiglia per scrivere con le immagini una lettera rivolta al suo popolo e a chiunque nel mondo voglia essere sensibile a quei problemi. La terra, il raccolto, la fatica costituiscono un legame forte. La vita in quella regione è filmata da Safi Faye nel tempo. Fad’jal si ripresenta in un lungometraggio dal titolo omonimo, del 1979, e nel cortometraggio Selbe parmi tant d’autres (1982) in cui la regista torna negli stessi luoghi per descriverne le mutazioni e le immobilità che comprendono anche chi li abita.

SI APRE un nuovo decennio segnato da una cospicua produzione di corti nell’attesa di tornare a girare un lungometraggio. Che si concretizzerà solo nel 1996 con Mossane (in realtà girato nel 1990 e poi rimasto bloccato per sei anni per questioni di diritti e finanziamenti sottratti che portarono a un processo contro un produttore), espressamente il suo primo film di finzione nel dipingere con colori vividi il percorso di ribellione, solitudine e rabbia della quattordicenne il cui nome compare nel titolo. Scegliendo una dimensione trasognata e favolistica, Safi Faye ripropone la sua estetica intransigente e ipnotica in un film che sembra provenire da un altro tempo, e ancora essere «documentario» intorno a una ristretta comunità, da filmare con partecipazione ma anche con la giusta distanza. Purtroppo quello sarà il lavoro con il quale la regista, sceneggiatrice e attrice senegalese si congederà dal cinema. Non farà più film. Ma il patrimonio che ci ha lasciato è di inestimabile rilevanza.