Musicista, romanziere, sceneggiatore, regista, autore delle sue colonne sonore e direttore della fotografia, S. Craig Zahler è un culto underground che ha smesso di essere segreto due autunni fa, con l’uscita di Bone Tomahawk, un western a basso budget, sanguinario e austero, parlatissimo e con cannibali, che polverizzava la vuota pretenziosià’di The Revenant e si faceva amare più di The Hateful Eight. Come i romanzi di Zahler -i western A Congregation of Jackals e Wraiths of the Broken Land, e il noir Mean Business on North Ganson Street- è un film denso di violenza e poesia, classico e contemporaneo, animato da grandissima passione per il racconto avventuroso e per i personaggi; e attraversato da un singolare codice d’onore.
L’intervista/ritratto che pubblichiamo qui sotto -perché il nuovo film di Zahler sarà al festival di Venezia- è stata effettuata un anno e mezzo fa, a New York.
«Bone Tomahawk» è la tua prima regia, però sei anche sceneggiatore, romanziere, musicista…
Quando mi sono iscritto alla New York University pensavo come tutti di diventare regista. Invece ho finito per concentrarmi su corsi di animazione a tratto, che rimane ancora uno dei miei grandi interessi, e di direttore della fotografia. In quegli anni, ho iniziato ad aiutare qua e là, in qualità di assistente di produzione. Il set è un luogo dove mi trovo bene da sempre. Uscito da scuola trovavo lavoro come operatore, ma ho presto capito che una bella fotografia non «fa» un film. Il film che mi ha fatto cambiare prospettiva, è Breaking the Waves, che ho visto almeno 3 volte di seguito. Stilisticamente non mi piaceva, anzi lo trovavo brutto. Ma era pieno di idee e di emozioni. Più o meno nello stesso periodo, ho divorato una retrospettiva completa di John Cassavetes. Anche lì, l’immagine era «sporca», ma i personaggi e la recitazione magnifici. Le cose che giravo io avevano un look più patinato ma non comunicavano nulla.
E alla scrittura come sei arrivato?
Sono un avido lettore da quando ho 12 anni – Robert K. Howard, H.P. Lovecraft … Metà di quello che leggo tuttora è letterature pulp, tra l’inizio del secolo e agli anni trenta. Ma come scrittore sono un completo autodidatta. Uscito dall’università, oltre a due band di heavy metal di cui facevo parte e agli ingaggi da direttore della fotografia, per mantenermi facevo il cuoco per un servizio di catering. È stato in quel periodo che ho iniziato a scrivere parecchio -sceneggiature e drammi in un atto solo -strani- un po’ Richard Foreman e un po’ Ionesco – niente di eccezionale ma erano un modo per esplorare il medium. Poi mi sono concentrato sulle sceneggiature e ne ho scritta una che mi ha procurato un agente, alla UTA. Da quel momento, hanno cominciato a leggermi. Negli ultimi dieci /undici anni, credo di aver scritto una quarantina di sceneggiature e otto romanzi. Circa una ventina di quelle sceneggiature sono state acquistate a Hollywood -credo che la WB ne abbia sei, Sony una, altre sono state opzionate da produttori indipendenti…Ma non sono mai state realizzate, ad eccezione di Asylum Breakout, che è stato prodotto da una compagnia francese. Era una cosa che aveva scritto a scuola, un horror cattivo, veramente brutale e deumanizzante. Però aveva delle sfumature e delle complessità che nel film finito sono scomparse. E ci hanno aggiunto un finale furbetto.
È qui che hai deciso di dirigere tu «Bone Tomahawk»?
Vedere uno dei miei script trasformarsi in un film stava diventando un’utopia.…Così ho ripreso e riscritto un vecchio copione, The Narrow Case, che si prestava ad essere realizzato con un budget che io e il mio manager/produttore Dallas Sonier potevamo permetterci.
Il film mi è sembrato molto speciale perché è ancorato a una sensibilità classica del western e ha un grande orecchio per quel linguaggio ma ha una dimensione splatterpunk. Come combini il genere classico a questa sensibilità così diversa?
Ovviamente amo il genere – ho scritto due romanzi horror/ western, un poliziesco e una fiaba gotica. Un’altra delle mie grandi influenze e’ l’heavy metal: sono un metal head totale da quando ho sedici anni. Per molti, il metal è una fase che si supera, come un momento di ribellione. Ma io lo ascolto ancora tutti i giorni, ne amo proprio il riff – ha un elemento, un’ energia e un umore che per me sono importantissimi. Ci sono infiniti modi del metal e lo cito perché guardo a quella musica un po’ come guardo al western, all’horror, al poliziesco o alla fantascienza – prendo gli elementi caratterizzanti del genere che mi attraggono. Nel caso del western, la frontiera, il paesaggio, una certa durezza dello stile di vita uniti alla disillusione e allo humor che ne derivano; per la fantascienza il senso della meraviglia; il poliziesco è il fatalismo, il linguaggio poetico e la valenza metaforica di autori come David Goodis e Charles Willeford, non la trama criminale per scoprire l’assassino. Sullo sfondo di quegli elementi caratterizzanti vedo come articolare i miei personaggi. Per quanto riguarda la violenza, sono cresciuto leggendo Fangoria e letteratura splatterpunk. Avevo il manifesto di Re-Animator sul muro, credo di aver guardato Suspiria tredici volte e ho smesso solo da poco il mio giubbotto dei Goblin. Dato che scrivo con in mente me stesso come pubblico è chiaro che anche la violenza deve andare «oltre» le cose su cui mi sono formato – Fulci, Argento, Bava, anche nelle versioni orribilmente mutilate dei loro film che arrivavano negli States. Scrivendo Bone Tomahawk tutte le volte che mi veniva un po’ di nausea sapevo di essere arrivato al punto giusto.
Eppure, nonostante questa rose di influenze, il tuo film e i tuoi romanzi hanno una freschezza originale non c’è l’autoreferenzialità del postmoderno.
È il mio obbiettivo. È stata la sceneggiatura di Bone Tomahawk a procurarmi quel cast incredibile, che ha lavorato per una miseria e con orari punitivi.

+Nessuno sapeva se potevo dirigere un film, perdipiù in 29 giorni. Alla fine, c’è pochissima improvvisazione rispetto a quello che c’era sulla pagina- abbiamo dovuto eliminare una scena con 4 cavalli perché non avevamo soldi e tempo, quindi li ho fatti andare a piedi. La reazione critica è stata superiore alle aspettative, quella del pubblico simile al previsto. Era esattamente il film che volevo fare: anche se il 20% degli spettatori lo detesta mi sono rifiutato di tagliuzzarlo, inserendo un sacco di primi piani e un mare di musica per dirti esattamente cosa pensare. Richard Jenkins parla del circo delle pulci. Kurt Russell passa tre minuti a guardare le stelle e discute del modo migliore di leggere un libro nella vasca da bagno. Se ti interessa bene, se no è lo stesso. Preferisco alienare una piccola frazione del pubblico, confondere alcuni, che diluirmi per far digerire più facilmente il mio lavoro a gente che comunque non è interessata. Quando un meeting prende quella piega so che finirà molto in fretta, e male.
Il cast è interessante anche perché include attori associati al genere come Kurt Russell ma anche figure del mondo indie, come Richard Jenkins. Come hai lavorato?
Gran parte della mia direzione, sia sul set che in salette di montaggio è ridurre. Preferisco una recitazione sottile. Un regista che amo molto è Takeshi Kitano. Mi piace il suo stile asciutto…Quando ho l’impressione di guardare qualcuno che «recita» -come Daniel Day Lewis che in ogni inquadratura ti fa sentire quanto si stia sforzando- non mi piace. Mi distraggo. Quindi io chiedo sempre di abbassare il registro. Dark Blu e Death Proof sono alcuni dei film di Kurt che preferisco. Tra i nostri attori era quello più «hollywoodiano», ma qui fa cose molto diverse. Jenkins è stato il primo a cui mi sono rivolto per Chicory . Ha accettato subito dicendomi: «questi non sono personaggi sulla pagina,. Sono fottuti esseri umani!».

Quali sono i tuoi registi?
Sidney Lumet è forse il mio favorito. Alcuni dei suoi film sono belli, altri più ordinari -ma è quello che c’è dentro… Se guardi Il pricipe della città non hai dubbio che quei personaggi abbiano una vita aldilà di quello che vedi sullo schermo. Poi Sergo Leone, Sam Pekinpah, Kitano i Coen, Lynch, De Sica, Fulci e Argento…Adoro Joseph H. Lewis. Secondo me è la versione migliore di Orson Welles. Non solo è un asso a piazzare la macchina ma le interpretazioni sono fantastiche, così calibrate, discrete…
I tuoi prossimi lavori?
Un romanzo tra il gotico e la favola, su un bambino – la cosa migliore che ho scritto finora. Poi c’è un film carcerario per cui stiamo cercando il cast. Quello che sarà il mio terzo film ho già finito di scriverlo. Se tutto ve bene, entro la primavera prossima li avrò girati tutti e due.

 

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*Il romanzo gotico di S. Craig Zahler, Hugh Chickenpenny: The Panegyric of an Anonymous Child e’ atteso in libreria a ottobre. Il film carcerario Brawl in Cell Block 99 sara’ proiettato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia e al festival di Toronto. Dragged Across Concrete, con Mel Gibson e Vince Vaughn e’ in corso di lavorazione a Vancouver.

Giulia D’Agnolo Vallan e’ un membro della commissione di selezione del festival di Venezia.