Solitamente non uso mai la prima persona né mi lascio andare a ricordi personali, ma in questo caso farò un’eccezione. La prima volta che ho conosciuto Zbigniew (lui preferisce chiamarsi Zbig) Rybczynski fu nel 1998, quando lo invitai come ospite alla retrospettiva pesarese «Animania», dedicata a 100 anni di esperimenti nel cinema d’animazione. Aveva portato con sé la copia personale in 35mm di Tango e un betacam de L’orchestre. Mi ricordo che, quando facemmo le prove tecniche nella sala del Cinema Sperimentale (si chiama proprio così) di Pesaro, di fronte alla pessima qualità del videoproiettore ero fortemente a disagio, pensai tra me e me: «Sono al fianco di uno dei cineasti che ha adoperato tra i primi l’alta definizione, quindi adesso di sicuro si incazza e si rifiuterà di proiettare il film in queste condizioni». E invece no, abbozzò un rassegnato «se non si può fare di meglio…». Il giorno dopo, forse per consolarsi, andò a Urbino ad ammirare i suoi quadri preferiti, ovvero le tavole della Città Ideale. Nell’arco di 16 anni Rybczynski è ritornato in Italia altre 7 o 8 volte, credo. Ospite dell’Istituto Polacco di Roma, ancora mio ospite in una monografica organizzata sempre all’interno del festival di Pesaro e, in un paio di occasioni, invitato in Puglia. Quasi sempre hanno chiamato me a presentarlo e a introdurre i suoi film (che preferisce definire test o esperimenti) in pubblico. Penso davvero che si sia stufato di me e preferirebbe essere presentato da qualcun altro. E tuttavia, pur avendo curato un doppio dvd nel 2003 con una pubblicazione allegata su di lui, mi sono accorto di non averlo mai intervistato per nessun quotidiano e rivista. Così – approfittando dell’omaggio che il festival «Avvistamenti» gli ha dedicato a fine luglio al Cineporto di Bari – gli ho finalmente rivolto alcune domande. Conversare con Zbig, confesso, non è affatto facile, non tanto per le difficoltà legate alla lingua, ma soprattutto perché è difficile ricostruire il suo pensiero, sempre complesso e articolato, sul cinema e più in generale sull’arte, sulla visione, sulla rappresentazione mediante immagini.
Il rapporto tra Rybczynski e l’Italia risale agli anni ’80, quando la cosiddetta videoarte cominciava ad essere un fenomeno diffuso, attraverso rassegne e festival, come ad esempio Camerino e Salsomaggiore (credo che a proiettare per primo in Italia un suo lavoro fu Adriano Aprà); c’erano perfino dei distributori di video sperimentali, come Tape Connection e Soft Video: quest’ultimo distribuì anche le opere di Rybczynski che venne fa Roma forse più di una volta ad «Eurovisioni», nella cornice di Villa Medici. Nel campo televisivo tra i primi a scoprirlo furono Enrico Ghezzi e Paolo Giaccio: quest’ultimo per esempio nel 1988 adottò il videoclip di Imagine come sigla della trasmissione Immagina condotta da Edwige Fenech. Due anni dopo Rybczynski creò appositamente per Raitre la sigla di Fluff, programma di riflessione sull’universo mediatico condotto da Andrea Barbato, il cui sottotitolo era «processo alla tv». Negli anni successivi a Fuoriorario non so quante volte sono stati trasmessi Steps e L’Orchestre, ma anche il suo ultimo lavoro, Kafka, co-prodotto dalla stessa Rai.
Ma alla fine degli anni ’80 Rybczynski fu invitato anche a Cinecittà, dove conobbe Fellini e soprattutto Franco Cristaldi, che gli promise di produrre un suo lungometraggio ad alta definizione. Purtroppo non fece in tempo poiché morì prima. Si potrebbe stilare un elenco di tutti i progetti falliti di Zbig, a cominciare dall’adattamento di Il maestro e Margherita di Bulgakov, che avrebbe dovuto realizzare con l’apporto della Sony e l’aiuto di Kees Kasander, produttore di Peter Greenaway, il quale però – sembra – era geloso di Rybczynski e contribuì a mandare a monte anche questo film. «Io avevo riadattato il romanzo», mi spiega, «ma mancava la sostituzione della realtà comunista con un altro contesto». Qualche anno fa, sempre in Puglia, ricordo di aver accompagnato, insieme ad altre persone, per alcuni giorni Rybczynski in giro tra Bari, Trani, Ruvo e Castel del Monte. All’epoca era intento a raccogliere in qualunque luogo andasse, materiale filmato per una trilogia che poi si è arenata («Ho girato circa un centinaio di ore», mi confessa). Si potrebbe pensare che Zbig non riesca a portare a termine i progetti per ragioni di carattere produttivo, ma – come si evince anche dalla nostra conversazione – il problema non è solo di ordine economico, la vera ragione è che questo singolare creatore non si sente ancora tecnicamente pronto a portare sullo schermo ciò che davvero ha in mente e gli sembra inutile girare qualcosa che non comporti una rivoluzione in termini di linguaggio e di innovazione tecnologica. Per lui i film sono una cosa, il cinema un’altra. Preferisce fare ricerca pura, sperimentare nuovi dispositivi, piuttosto che licenziare un’opera che non lasci tracce nella storia delle immagini in movimento. E, infatti, Zbig è un po’ ossessionato dalla necessità di dover girare a tutti i costi il suo «capolavoro», parola che ricorre spesso nell’intervista. Una traccia però l’ha lasciata: molti sono quelli che lo hanno omaggiato o, più o meno dichiaratamente, plagiato; io stesso una volta gli ho segnalato che Nowa Ksiazka era stato «copiato» da un videoclip degli Orbital, oppure che i Foo Fighter in un altro loro music video si erano ispirati a Mein Fenster e altri suoi cortometraggi. Non è una novità che Gondry ha dichiarato di essersi ispirato a lui. E, infine, il regista suo conterraneo Lech Majewski, dopo avergli domandato quale tecnica avesse utilizzato per i corpi nudi fluttuanti nella cattedrale de L’Orchestre, ha spudoratamente replicato quella sequenza nel suo film The Mill & The Cross. Di fronte a tutto questo, Rybczynski ha sempre mantenuto una flemmatica indifferenza, ma forse – sotto sotto – si sente piuttosto lusingato.
È sempre difficile definire e circoscrivere l’orizzonte della tua ricerca estetica. Diciamo che sei uno «sperimentatore», ma nel senso ampio del termine, poiché la tua arte non si manifesta unicamente mediante i film, tanto è vero che non ne hai realizzato nessuno da vent’anni a questa parte.
I miei lavori sono sempre stati sperimentali ed è facendo questi esperimenti che ho affrontato tanti problemi relativi agli strumenti per realizzare film. In realtà non li chiamerei film, ma appunto test, prove. Ho scoperto di vivere in un’epoca in cui stiamo attraversando un passaggio tecnologico fondamentale. Dagli anni in cui ho realizzato Tango fino ad oggi c’è stata una grande rivoluzione e sono sempre stato consapevole che il mio lavoro doveva essere legato anche alle nuove tecnologie. Quindi sono diventato un artista-tecnico. Da due decenni non faccio più film per scelta ma sto progettando dispositivi per farne di nuovi e di migliori. Da parecchi anni a questa parte non c’è nulla di particolarmente interessante al cinema. Penso che la nuova fase sarà completamente diversa, sarà più che virtuale. Io sono sempre stato legato a questa maniera di vedere il futuro. Sono fiero dei film che non ho fatto.
Eppure in questi anni di silenzio hai scritto diverse sceneggiature, che ti hanno portato via molto tempo. Come mai sono rimasti sulla carta questi film?
Quando termino un copione perdo il mordente, nel senso che mi trovo tra le mani una buona idea, una struttura finita ma, appena si tratta di passare dalla parola scritta all’immagine, mi accorgo che mancano alcuni elementi fondamentali per la realizzazione e quindi non so che farne della sceneggiatura.
Che tipo di film ti piacerebbe realizzare?
Innanzitutto vorrei autofinanziarmelo, ma mi costerebbe 60 milioni di dollari. Come potrei ottenerli? Fronteggiando una serie di problemi, tra cui la scelta degli attori. Sono pronto anche a lavorare con divi famosi, a patto da fargli compiere cose cui non sono solitamente abituati. Penso che sia terminato il sistema classico di fare film, una certa impostazione che conduce sempre agli stessi risultati. Oggi bisognerebbe osare di più. Quello che ho in mente so già che non si potrà mai realizzare, pur ritenendo che la mia ultima sceneggiatura sia un capolavoro. Sono ben consapevole del fatto che potrei fallire nella mia impresa, che potrei non riuscire ad affascinare un pubblico vasto, cosa che più di altre mi interessa. Ma il mio obiettivo è ambizioso: lasciare un segno, essere fonte di ispirazione per chi verrà dopo di me.
Prima ti sei definito artista-tecnico, io parlerei di artista-scienziato. Utilizzi da sempre le immagini in movimento ma potresti adoperare qualsiasi altra forma espressiva…
Il Rinascimento è stato per me molto contagioso, così come tutto ciò che è scaturito da quella stagione. Mi piacerebbe portare avanti l’idea rinascimentale in un contesto attuale. Durante il Rinascimento gli artisti erano anche scienziati, figure come Cartesio o Copernico sono figli di questa idea. Essere artisti oggi, rispetto al passato, la ritengo un’onta, una vergogna. L’artista dovrebbe essere dotato di poteri speciali, capace, che so, di pilotare un F16. L’arte non ha più quella forza ed energia che aveva in passato. Cosa può fare l’artista per modificare lo status quo? Dovrebbe essere capace di creare una nuova visione del mondo.
Come mai hai scelto proprio il medium cinematografico per esprimerti, per sperimentare?
Quando avevo 16 anni ero molto interessato alla pittura, avevo un rapporto quasi sacro con i capolavori della storia dell’arte visiva. Ma ben presto ho capito che era un’arte conclusa, finita, quindi mi sono orientato verso il cinema. Vedevo tre film al giorno, ero alla ricerca di storie belle, che mi tenessero incollato alla sedia. Poi però mi sono reso conto che anche in questo campo erano già stati fatti capolavori, così non sapevo come creare il mio di capolavoro. Per arrivare a questo ho fatto esperimenti adottando le tecnologie più sofisticate, inventando una metodologia, cercando di risolvere una serie di problemi, come ad esempio evitare la post-produzione creando effetti speciali in tempo reale, magari utilizzando le finestre e le tendine elettroniche, ecc.
Bisognerebbe spiegare al pubblico che nei tuoi video gli effetti (tra cui il multimatte, un mascherino elettronico che consente di sovrapporre più strati) sono stati realizzati in diretta, quasi secondo modalità teatrali più che cinematografiche, limitando al massimo la post-produzione. Tutte cose che oggi con il compositing e i trucchi digitali sarebbero impensabili. Con questa modalità sei riuscito a produrre decine di lavori in fondo nell’arco di pochi anni.
La velocità per me è fondamentale. Attualmente abbiamo a disposizione una serie di informazioni che vanno processate sempre più rapidamente. Negli anni ’80 c’era una regola in campo pubblicitario: all’interno di uno spot un’inquadratura doveva durare al massimo un secondo. Oggi in un secondo si vedono chissà quanti stacchi. Insomma il linguaggio si è evoluto, è diventato sempre più veloce.
Hai iniziato la tua carriera di cineasta utilizzando nello specifico le tecniche d’animazione. Credi anche tu, come me, che il cinema d’animazione sia la forma più pura di cinema, se pensiamo alla nascita delle immagini in movimento, ai dispositivi pre-cinematografici?
Non sono d’accordo. Penso che la natura del cinema sia fondamentalmente fotografica e non pittorica, anche se ritengo che il film d’animazione rappresenti il futuro del cinema, perché il computer può fornire immagini e personaggi che, combinati tra loro, ci restituiscono i vari strati del reale. Nella mia attività ho voluto analizzare tutti gli aspetti della macchina cinema. Prima mi sono formato e confrontato con il cinema tradizionale, anche se poi mi sono accorto che non avevo voglia di rappresentare qualcosa che si trovava nella realtà, davanti alla macchina da presa, quindi mi sono orientato verso la sperimentazione. Quando ho girato Tango – che considero il mio esperimento principale per uscire dalla prospettiva del cinema «classico» nel senso più profondo del termine – nessuno sapeva come classificarlo. Quelli dell’Academy gli hanno attribuito l’Oscar come miglior film d’animazione solo perché si basava sulla tecnica della stop-motion.
Puoi parlarci del particolare tipo di lente che stai progettando ormai da molti anni?
Gli obiettivi che vengono usati da sempre sono soggetti a distorsioni, mentre io sto tentando di costruire una lente particolare che consentirà di avere una visione perfetta. È un obiettivo di 180° per poter creare immagini in tre dimensioni, non solo per girare film ma anche per le applicazioni nel campo della realtà virtuale. Purtroppo per completarla ho bisogno di alcune componenti che sono appannaggio dei militari, dispositivi che vengono montati sugli elicotteri americani Apache e consentono una visione notturna. È una faccenda molto complicata poiché ci vuole l’autorizzazione del Dipartimento per la Difesa per utilizzare tali componenti. Lavoro al progetto a Tucson in Arizona, che è una sorta di Silicon Valley nel campo dell’ottica.
Beh, la tua ricerca si inserisce perfettamente nella storia dei dispositivi ottici, che si intreccia sempre con la ricerca bellica. Paul Virilio in un bellissimo saggio su guerra e cinema, Logistica della percezione, analizza proprio questo interscambio.

Voglio anche aggiungere che la mia ricerca non avrà sviluppi solo per realizzare le immagini in movimento del futuro, ma sogno un obiettivo che consenta all’uomo di vedere meglio in generale. Costruire un nuovo dispositivo ottico senza distorsioni, ti permette di vedere meglio la realtà. Attualmente non si possono far coesistere le immagini prodotte da due obiettivi diversi. Nella tecnologia odierna non esiste una standardizzazione geometrica dell’immagine.
Secondo la teoria del kinoglaz di Dziga Vertov l’obiettivo della macchina da presa è superiore a quello dell’occhio umano.
Secondo me non c’è niente di superiore all’occhio umano, quindi dobbiamo realizzare un obiettivo che imiti al massimo il nostro occhio.
Quando faccio il tuo nome tra gli addetti ai lavori e non, pochi sanno chi sei, ma appena gli dico che sei l’autore di Imagine, tutti se lo ricordano con ammirazione. Insomma è una delle tue opere che è rimasta più impressa nell’immaginario collettivo insieme a Tango e a Steps.

Imagine è stato il mio primo esperimento con la pionieristica tecnologia HD arrivata negli Usa dal Giappone a metà anni ’80. Mi commissionarono il primo test e quindi pensai di realizzare un videoclip e, siccome conoscevo bene Yoko Ono poiché i nostri figli erano amici, l’ho incontrata per chiedergli se poteva lasciarmi utilizzare un brano di John Lennon. Lei mi ha concesso Imagine, io mi sono stupito perché lo considero un brano «sacro», ma lei me lo ha concesso perché ha capito che non si trattava di una cosa commerciale. Mi viene in mente un aneddoto a proposito di un nostro incontro: andai nella sua casa di Long Island, parlavamo nella camera da letto, e a un tratto mi è venuta voglia di fumare; così lei mi ha detto di aprire l’armadio in cui c’erano ancora tre pacchetti di Gitanes che aveva lasciato John; presi un pacchetto già aperto e le rimanenti sigarette le ho fumate in auto. Non dovrei dirlo ma quando il pacchetto è terminato l’ho buttato nel cestino. Qualcuno mi rimprovera ancora di non averlo conservato.
Ti senti polacco, europeo, statunitense o apolide?
Non saprei cosa rispondere. Ti direi polacco, anche se ho intenzione di rinunciare alla cittadinanza natia a causa dei miei dissidi con il governo del mio paese. Diciamo che mi sento un essere umano appartenente a quella civiltà giudaico-cristiana che poi deriva dall’eredità greco-romana.
Puoi raccontarci esattamente cosa ti è capitato negli ultimi due anni in Polonia?

Ho cercato di creare a Wroclaw (Breslavia) un Centro legato alle nuove tecnologie dell’immagine (ribattezzato con l’acronimo CETA). Mi hanno concesso ingenti finanziamenti pubblici, ma poi, proprio quando ormai il centro era completato, ho scoperto che c’erano politici e burocrati che rubavano, prendevano mazzette. Ho denunciato tutto alla magistratura. Purtroppo l’apparato politico è molto potente e ha dalla sua parte la polizia, parte dei media, perfino la magistratura. Nessuno ha voluto mettersi contro il ministro della cultura Sdrojewski. Così sono passati 10 mesi, la magistratura ha archiviato le cause penali ma ci sono ancora i procedimenti civili in corso. Ma intanto – dopo la mia denuncia – sono stato cacciato via nel giro di poche ore e non ho potuto recuperare il mio materiale che avevo messo a disposizione di questo centro. Speravo di poter condividere le mie esperienze con giovani filmmaker, non volevo solo fare una casa di produzione, ma un centro di formazione. Purtroppo non è andata come speravo.
Dopo questa disavventura cosa pensi di fare?
Ritorno negli Usa, dove non ci sono soldi pubblici, ma solo finanziamenti privati. L’Università dell’Arizona è interessata alle mie ricerche, forse nascerà qualcosa, ma anche negli Usa c’è parecchia burocrazia.
In conclusione, dopo diversi tentativi andati a vuoto e al di là dei discorsi metodologici generali, puoi spiegarci a quale film in particolare stai lavorando?
]Vorrei rappresentare ciò che accade nel nostro cervello. La realtà mentale, l’immagine o la proiezione di quello che vedo e non quello che vedo realmente. Del resto è ciò che facciamo davvero nella vita di tutti i giorni: ovvero, pur vivendo nel presente ci immaginiamo sempre nel passato o nel futuro. Mi piacerebbe catturare questo mondo mentale che si sviluppa dentro di noi e che davvero definisce la realtà. Nel film che vorrei girare mi piacerebbe riprodurre la forma mentale di circa 5000 anni di storia della nostra civiltà, poiché credo che questa sia l’essenza dell’arte del futuro. La realtà è solo una proiezione del nostro cervello.