Ruth Beckermann strategie di confine
Intervista Premiata al Kinoatelje di Gorizia, alla cineasta è stata dedicata una personale. Dalla sua video-installazione europaMemoria emerge l’analisi tra immaginario e rappresentazione. Un incontro
Intervista Premiata al Kinoatelje di Gorizia, alla cineasta è stata dedicata una personale. Dalla sua video-installazione europaMemoria emerge l’analisi tra immaginario e rappresentazione. Un incontro
«Tra memorie europee e sogno americano»: il Premio Darko Bratina 2014 è stato assegnato a Ruth Beckermann, documentarista austriaca, il cui nuovo film Those who go, those who stay (Quelli che vanno, quelli che restano), un mosaico di storie di migrazione, era stato presentato in anteprima alla Viennale nello scorso ottobre e ha appena partecipato alla Diagonale di Graz. Essendo «Omaggio a una Visione» l’iniziativa che il Kinoatelje di Gorizia dedica alla memoria del suo fondatore, il premio viene attribuito annualmente a personalità che si siano distinte nell’ambito cinematografico, video e televisivo per la ricerca storico-sociale e l’attenzione a dinamiche interculturali. Per l’occasione è stato organizzato un tour con tre film alla presenza della cineasta (Die papierene Brücke, Jenseits des Krieges e American Passages) con proiezioni e incontri a cavallo del confine tra Italia e Slovenia toccando Trieste, Udine, Gorizia, Isola e Lubiana, per realizzare anche geograficamente l’intento di unire comunità e storie diverse. E proprio a Gorizia è stata riproposta la video-installazione europaMemoria.
Studi di giornalismo e storia dell’arte tra Vienna, Tel Aviv e New York, il filo conduttore nell’opera di Ruth Beckermann non può che essere un’assidua indagine tra memoria, individuale e collettiva, un’analisi sociale capace di spaziare nell’immaginario collettivo e un continuo interrogarsi sul mezzo che usa, il rapporto tra presente e rappresentazione, tra immagine e contenuti latenti nel mondo reale, per invitare spettatori e spettatrici a riflettere sul proprio passato e presente condiviso con l’altro/a nel mondo. Focus attuale è la migrazione, sempre in relazione al passato, alla Storia e alle storie individuali, montate in successione e a contrasto, per associazione o per analogia, per assonanza o dissonanza – un viaggio nella memoria e un viaggio nel molteplice linguaggio visivo. Abbiamo intervistato via mail la co-fondatrice della casa di produzione e distribuzione viennese Filmladen nei primi anni ottanta, quando Ruth Beckermann iniziò anche a cimentarsi nella regia, a puntare la sua cinepresa sui soggetti da indagare, dove la realtà di tipo illustrativo le serve unicamente per individuare una verità più profonda, in relazione o in contrasto con il parlato o con i fattori nascosti sotto quella patina che solitamente fa da forma-contenuto per molte opere. Non la sua, però, essendo qui l’interrogativo a imporre la forma che a sua volta narra il contenuto. Strutture complesse che si leggono facilmente applicando il prefisso «inter». Lo rivela lei stessa, nel rispondere a cosa significa per lei il Premio Darko Bratina 2014: «Credo che il pensiero interdisciplinare e transfrontaliero di Bratina sia molto vicino al mio. Ho sentito parlare di lui, aveva aperto le barriere tra cinema, sociologia, antropologia, purtroppo i suoi testi non sono tradotti e quindi non posso leggerli».
Come ha vissuto lo sconfinare tra Trieste, Gorizia e Lubiana?
Conoscevo le due città italiane Trieste e Udine, avendole visitate parecchie volte da bambina durante le vacanze estive passate coi miei genitori a Grado o a Lignano Pineta. Gorizia mi ha molto affascinato, il suo centro storico ricorda più l’impero degli Asburgo che l’Europa contemporanea. Purtroppo i negozi sono vuoti, la gente preferisce i grandi supermercati. Mi piace molto quel confine che passa in mezzo alla città, ti fa sentire la storia europea: tutto d’un tratto ci sono costruzioni in stile jugoslavo. Ho trovato simbolicamente interessante che ciò che resta della comunità ebraica segnala l’unione e la separazione: nella parte italiana c’è la sinagoga, in quella slovena il vecchio cimitero ebraico. Era bello sì, questo viaggio cinematografico, perché basato sull’idea di confine e andare oltre, nel senso reale e figurato: quanto sono vicini quei luoghi geograficamente e quanto lo sono intellettualmente le persone che amano un certo cinema!
Anche nei suoi documentari si parla ripetutamente di confini, mentali e/o geografici, che si mescolano, si annullano o si disintegrano parlandone…
Senza confini la vita sarebbe noiosa, è la morte come confine ultimo a renderla appassionante. I confini stessi chiedono di essere ampliati, oltrepassati, e infatti a me interessano soprattutto i passaggi, sia nel senso di Walter Benjamin che in quello di Baudelaire: gironzolare à la bohèmien per le strade e la vita cittadina. Per girare Die papierene Brücke (Il ponte di carta) non potevo andare a Czernowitz che allora, nel 1986, faceva parte dell’Unione sovietica, per cui ho spostato le riprese a Bukowina in Romania: il confine aveva impedito una cosa e permesso un’altra, ossia un’elaborazione più poetica e persino più realistica essendo rientrata nella riflessione generale anche quella specifica sul confine e i suoi significati. Zorros Bar Mizwa (Il Bar Mizwa di Zorro) narra quel rito nella cultura ebraica in cui si passa dall’infanzia-adolescenza all’età adulta, un «rito di passaggio». American Passages è un road movie che procede per associazioni muovendosi attraverso gli Usa subito dopo le elezioni di Obama e il crash finanziario.
Come trova i temi dei suoi film che narrano sempre di presente e passato, storie personali che si fanno storia collettiva?
Da un progetto nasce l’altro. Per otto anni mi ero occupata di identità ebraica confrontandomi con la storia mai raccontata degli ebrei di Vienna: di qui era nata la trilogia Wien Retour, Die papierene Brücke e Nach Jerusalem (Verso Gerusalemme), nonché due libri. È inimmaginabile, oggi, pensare che la prima mostra sulla fine dell’800 e l’inizio del ‘900 che parlasse di Schönberg, Freud, Klimt, ecc, intitolata «Sogno e realtà» abbia avuto luogo soltanto nel 1986 al Künstlerhaus. Dopo, il mio interesse si era sposato sul lato dei carnefici e aspettavo l’occasione giusta, o meglio un dispositivo adatto per farci un film: lo trovai nella cosiddetta mostra sulla Wehrmacht. Appena saputo di questa esposizione sulle truppe militari naziste, sapevo dentro di me che avrei girato in quegli spazi espositivi, spazi pubblici dunque, perché ero convinta da subito che sarebbero arrivati tanti ex soldati per ammirare le oltre mille fotografie d’epoca.
Per l’installazione video europaMemoria concepita nel 2003 per Graz, capitale europea della cultura, ha intervistato 25 migranti, le cui storie si possono seguire in 25 cabine singole. Ognuna narra nei dettagli una storia europea, tanti volti, ognuno per sé. È per suggerire una rappresentazione scultorea della memoria?
Ogni persona ha il proprio monitor, ogni persona – e quindi ogni storia – è paritaria e ha lo stesso grado di importanza. Sebbene in Europa ci siano le lotte anche per i ricordi, ad esempio tra serbi e croati, o tra italiani e sloveni, il mio intento era non sottolineare quel contrasto ma porre i diversi ricordi uno accanto all’altro, visto che di fatto esistono uno accanto all’altro. Inoltre ognuno/a che visita l’installazione può in questo modo costruirsi il proprio montaggio nella sua mente combinando le impressioni più incisive.
Per filmare queste storie di vita individuali ha scelto il formato del primissimo piano: ogni volto come paesaggio della propria anima?
Sì, anche, ma ho adottato questo formato estremo soprattutto per escludere ogni sorta di sfondo. L’unico spazio comune dei volti è lo spazio espositivo. Anche la Storia è poco presente, passa come uno sfondo lontano, un lucido in cui questi ricordi sono iscritti: il nazionalsocialismo, il comunismo, il colonialismo. Il narratore più anziano racconta la rovina di una famiglia austriaca ai tempi della prima guerra mondiale, mentre la più giovane, una ragazza iraniana, parla della sua decisione di lasciare Teheran, da sola, per poter condurre una vita più libera. È la storia degli ultimi sette decenni a passarci davanti in frammenti: la persecuzione degli ebrei, la cacciata dei cittadini tedeschi dai Sudeti in Moldavia, la cacciata dei cittadini italiani dall’Istria, la guerra civile in Spagna, Ungheria 1956, Praga 1968, Dien Bien Phu, le implicazioni nate dal colonialismo britannico in India e in Africa, la questione palestinese… e all’improvviso l’Europa si fa immensa.
Ha aggiunto nuove storie o quelle filmate, ormai dieci anni fa, sono sempre rappresentative?
Sì, lo sono. Si tratta di persone che vivono in Europa e che si sono costruite qui una loro esistenza. Si tratta di memorie europee. Aggiungerei un’esistenza precaria, di una persona che vive qui da tanti anni, in modo illegale. Dieci anni fa eravamo ancora più ottimisti, credevamo che l’Europa diventasse un’Europa delle persone che ci vivono. Ius solis invece di ius sanguis. Ma ne siamo ben lontani, persino per quanto riguarda coloro che sono nati qui. In questo senso potrebbero fare da modello gli Usa, dove ogni bambino se nato lì è automaticamente americano.
«American Passages» è uno spaccato degli Stati Uniti prima e dopo le elezioni del presidente tuttora in carica Barack Obama. Che cosa aveva suscitato il suo interesse?
Gli Usa sono una nazione basata sulla volontà, creata cioè da persone cacciate dall’Europa che volevano costruire qualcosa di nuovo e di migliore: una democrazia che promette ai suoi cittadini libertà e la ricerca di felicità e fortuna. Personalmente ammiro la costituzione americana del 1787. È una sorta di ombrello protettore di tutte le diverse forme di vita e le diverse idee esistenti nei singoli stati membri. L’Europa dovrebbe studiare meglio il modello americano, invece di prendere le distanze da esso con tanta presunzione. Da un lato mi interessa la memoria, dall’altra le utopie, quali il socialismo, l’America, per l’appunto, il sionismo. In Wien Retour ad esempio si parla delle speranze e delle delusioni vissute nella Vienna Rossa tra le due guerre, in Nach Jerusalem osservo la realtà dello stato d’Israele mettendola a confronto con l’utopia pensata da Theodor Herzl.
Il suo confronto con cultura e memoria ebraica, nonché l’olocausto, deriva dalle sue svicende famigliari?
Essendo io nata negli anni cinquanta a Vienna, non mi rimaneva altro da fare che occuparmi di questo problema. I pochi amici ebrei della mia generazione si erano chiesti, e hanno chiesto ai loro genitori, perché vivessimo in questo paese che non ammette nemmeno la propria compartecipazione alle colpe storiche dichiarando di essere stato la prima vittima dei nazisti tedeschi. Lo fece con grande successo finché il castello di carte era crollato del tutto con l’affare Waldheim.
Quali temi avete discusso nella masterclass?
Le memorie degli ex soldati della Wehrmacht in Jenseits des Krieges, dove per due ore si vedono testimonianze della cosiddetta generazione della guerra. Il mio sguardo si era focalizzato sulle sfumature dei ricordi tra verità e bugie. Ognuno costruisce la propria narrazione, la propria storia di vita, come poi costruiamo la grande Storia. Il film mostra le contraddizioni che emergono tra parole e mimica, tra frasi dette e gesti fatti…
Lei ha girato un film ai tempi dell’ascesa al potere di Haider. La interesserebbe fare un viaggio simile a American Passages attraverso le regioni italiane per indagare l’atmosfera socio-politico-culturale?
Un bel giorno vorrei fare il mio personale «viaggio in Italia», tranquilla e senza cinepresa. Però, se ottenessi l’incarico, lo farei subito un road movie documentaristico, essendo l’Italia per molti versi un laboratorio per l’Europa: diventerà un museo con tanti tesori artistici e una popolazione sempre più anziana oppure saprà reinventarsi in modo nuovo e intelligente?
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