La Russia è tristemente balzata agli onori della cronaca per la guerra contro l’Ucraina, un conflitto che sta interessando l’opinione pubblica mondiale e che conta ogni giorno preoccupanti bollettini di morti e feriti. La storia di questa nazione però non è soltanto scandita da scelte discutibili dei suoi governanti, ma da una tradizione fiorente di musica, arte e letteratura che, malgrado la «cancel culture» che imperversa anche nelle nostre università, non può e non deve essere cancellata bensì divulgata e studiata tra Majakovskij e Dostoevskij, tra Tarkovskij e Ejzenshtejn. Sono versi, immagini, musica potenti, come quelle immortali di Mikhail Glinka, e oggetti di desiderio di un cinema prezioso e futur(istic)o come quello di Mario Bava o Brian De Palma
Anche i paesi vicini alla Russia, molti dei quali appartenenti all’ex Urss, negli ultimi anni, sono riusciti a sbocciare in una fiorente industria dell’intrattenimento, con cantanti e musiche che, molte volte, hanno viaggiato di pari passo con le colonne sonore di film dallo status di culto. Il nostro sarà un viaggio attraverso immagini e suoni, attraverso pellicole note o meno, un viaggio che inizierà proprio nel 1991, data importante che vede la nascita della Csi e la fine dell’Unione Sovietica.
Una storia soprattutto pop che, prima del 1991, è conosciuta, ma che dopo lo è meno. Non esiste d’altronde solo un cinema che inizia e finisce con La corazzata Potëmkin, ma che continua, splendido e euforico di idee, con Brat. Ci concentreremo su due nazioni, la Russia e l’Ucraina, un altro paese al centro di una vivida rivoluzione artistica, all’apparenza sottovoce, ma capace invece di gridare forte tutta la voglia di emergere, malgrado il vento, la bufera e le scarpe rotte.

FRATELLI
Brat da noi uscì come Brother, nel 1997, e il suo seguito come Il fratello grande, nel 2000. Visioni corsare mai sbocciate oltre la granulosa incertezza di un vhs italiano, con frasi di lancio altisonanti («Il primo film in cui i russi battono gli americani») che cercano la spettacolarità in un film che riflette lucidamente soprattutto sulla guerra. Brat, e in misura minore il suo seguito, sono film che graffiano, lasciano aperte le ferite e portano il cinema russo a una dimensione d’intrattenimento intellettuale che non riuscirà a generare emuli altrettanto efficaci, non nel cinema russo, non nella filmografia del suo autore, Aleksei Balabanov. La magia, l’alchimia incredibile di elementi, musica, immagini e temi, che, all’apparenza, sono riproposizioni superficiali di un certo cinema d’azione di matrice statunitense, sono unici. È un po’ come se il nostro cinema popolare anni Settanta, prendiamo per esempio Roma violenta di Franco Martinelli/Marino Girolami o La banda del gobbo di Umberto Lenzi, figli anch’essi di un modello a stelle e strisce, da Don Siegel a Michael Winner, assumesse un valore politico così potente da essere una riflessione sulla storia italiana non dissimile da un Elio Petri. Il valore aggiunto dell’approccio di Aleksei Balabanov però è di rendere spettacolare qualcosa che spettacolare non è: la povertà, la solitudine della guerra, il fratricidio di una nazione che cannibalizza e spinge ad uccidere i propri fratelli. Certo, per tornare ai nostri polizieschi anni Settanta, anche in Milano trema: la polizia vuole giustizia di Sergio Martino si parla di golpe e il film, forse il migliore dei nostri prodotti d’epoca, incarna la paura di quegli anni terribili di piombo italici, ma lo fa con la superficialità di un’opera che è, giustamente, solo intrattenimento con un surplus di critica sociale, assolutamente ininfluente sopra la patina bronsoniana di robusto Callaghan made in Milano. Brat, invece, ed è qui la sua potenza, è spettacolo popolare che parla di temi seri, ma questa sua natura è insita nel dna della pellicola, non uno strato secondario. La storia di Danila Bagrov, ex soldato che è stato impegnato in ufficio durante la guerra in Cecenia, ma sa stranamente sparare e uccidere benissimo, incarna lo spirito di una nazione che da poco è uscita dall’Urss ma si trova sperduta e denazionalizzata. Il protagonista bighellona in una San Pietroburgo multietnica: in giro si parla francese, la musica è americana, i criminali ceceni, l’unico alleato che lo ascolta è tedesco, e suo fratello è un pusillanime che non si ferma a tradirlo. Però è il suo sangue e in questo Brat è chiaro: è il sangue che spinge Danila all’azione, il suo essere russo, il nazionalismo che malgrado guerre e tradimenti vince su tutto. Un fratello resta un fratello sempre. Il protagonista emerge sulle note dei Nautilus Pompilius e della struggente Kryl’ja (Le ali), una canzone che parla di angeli caduti e ferite difficili da rimarginare. Non per nulla la sequenza è visivamente simile a un videoclip con una donna nuda di spalle e un tatuaggio di ali sulla schiena. «A quel tempo avevamo tempo», recita la canzone, «ora abbiamo il dovere/Per dimostrare che i forti mangiano i deboli/Per dimostrare che tutto il male (per il momento) è buono dopo tutto/Abbiamo tutti perso qualcosa/In questa folle guerra/E a proposito, dove sono le tue ali che ho amato così tanto?/Dove sono le tue ali che mi sono piaciute?/Dove sono le tue ali che ho amato?» .

Una raccolta dei Nautilus Pompilius

 

Musica e immagini viaggiano insieme in un mix incredibile di idee potenti, sublimate soprattutto dalle musiche dei Nautilus Pompilius, un gruppo che «fa uscire di testa» Danila, ma che da noi non è conosciuto, una tra le band più influenti in ambito post punk e new wave della musica rock russa e che, casualità, si scioglierà proprio in quel 1997 che accompagna il viaggio del protagonista alla ricerca della sua identità in Brat. Si possono ascoltare nella pellicola le loro Durante la pioggia, Vampiro gentile, Tre zar, Aria, La gente sulla collina, Clap Clap, Uccelli neri, La bestia e Madre degli dei. La migliore, in una soundtrack di incredibile potenza vocale e sonora, è Uccelli neri. Gli uccelli con le ali scure attaccano il protagonista della canzone, un re, vogliono prendere i suoi diamanti, fare del male a sua figlia. Non serve corromperli, gli uccelli non hanno bisogno di ricchezze, le monete sono arrugginite e di nessun valore per loro. Questa canzone la si può ascoltare quando Danila imbraccia un fucile a canne mozze per salvare il fratello. I corvi sono proiettili e non conoscono pietà. «Non abbiamo più bisogno dei tuoi occhi/Non abbiamo più bisogno dei tuoi occhi/ Siamo già stati nei tuoi occhi/E abbiamo preso tutto ciò di cui avevamo bisogno». Ancora canzoni e immagini insieme in una armonia che ha solo paragone nei musical.
Non dimentichiamo poi che il loro unico brano del periodo Urss, Clap Clap, viene suonata live come a dire che, per ricordare il passato, non basta il suono di un cd ma dev’essere la voce viva come il canto di un aedo in epoca greca.

SINFONIE D’ORIENTE
Oltre a loro spiccano, per diversità di genere, due canzoni di Anastasia Poleva Frata volante e Per niente, sinfonie più pop e a tratti arabeggianti, sicuramente più tradizionali rispetto ai Nautilus, ma magicamente perfette nel contesto.
Dopo Brat seguiranno, come detto, Brat 2 e un apocrifo, Syostry, diretto dal suo sfortunato attore, Sergey Bodrov, morto a 31 anni durante i sopralluoghi di un film, travolto da una valanga e disperso. Solo che niente dopo questa pellicola sarà lo stesso nel cinema russo, si continueranno a girare film ovviamente, alcuni bellissimi diretti dallo stesso Aleksey Balabanov come Cargo 2000, ma nessuno così iconico. Un po’ quello che era successo a Hong Kong a un passo dallo stesso 1997 di Brother con A Better Tomorrow e il personaggio di Chow Yun Fat, cappotto lungo e stuzzicadenti in bocca, così leggendario da creare un mito capace persino di surclassare l’action noir, ottimo, di John Woo. Alcuni film d’altronde sono vere leggende.

SENZA VELI
L’eco mondiale del successo delle t.A.T.u., un duo di idol russe, composto da Lena Katina e Julia Volkova, difficilmente ha avuto un precedente. La rossa e la mora conquistarono il globo grazie al furbo mix di pruriginosità erotica e diritti sbandierati Lgbtq: loro, vestite come una fantasia sessuale manga con un’uniforme scolastica, erano, al pari di tante ragazzine che le ascoltavano, innamorate di qualcuno o qualcuna, magari non contraccambiate, non comprese dal mondo e perciò arrabbiate. Così urlavano, sotto la pioggia, nel video della loro consacrazione All the Things She Said (Tutte le cose che ha detto), o meglio in versione russa Ja sošla s uma (Ho perso la testa) perché l’amore fa perdere la testa e non importa se la gente (ci) giudica. In quelle immagini, censurate, oggetto di rabbia da parte dei benpensanti, Lena e Julia erano dietro una gabbia, come animali da zoo, con il pubblico che rideva mentre loro si baciavano teneramente, incuranti del mondo. Non passò molto che quel video le rese famose, la canzone fu una delle hit del 2002, diventando presto disco d’oro e di platino in tutto il mondo. In Italia le due arrivarono sul palco del Festivalbar e scandalizzarono per quel bacio simbolo non solo del loro amore ma di un orgoglio lesbo che invitava ragazzi e ragazze a fare coming out, a non aver paura di amare. La canzone era un pop rock con base elettronica molto orecchiabile, il testo era accattivante e i personaggi facevano il resto rendendo iconica la melodia, sia in russo che in inglese. «E sono tutta confusa, mi sento intrappolata e affrettata/Dicono che è colpa mia ma io la voglio da morire/Voglio portarla via in volo dove pioggia e sole/Mi cadono sul viso, lavando via tutta la vergogna» sono parole d’amore disperato che continuano con l’accusa alla famiglia «Mamma mi guarda/Dimmi, cosa vedi?/Sì, ho perso la testa/Papà mi guarda/Sarò mai libera?/Ho superato il limite?». Nei video successivi le due fanno di più, spingono ancora oltre la lancetta del mostrabile: in Prostyje Dvizenija (Movimenti semplici), la mora, Julia, si masturba mentre stavolta la canzone è una ballata molto dolce. Il loro successo dura poco: presto le stesse svelano di essere eterosessuali e di nascere come frutto della campagna marketing del loro agente, Ivan Šapovalov («Passava il suo tempo pensando a come dare scandalo invece di pianificare il nostro lavoro artistico»).
Ferme allo schema scandalistico, senza più neanche l’appoggio del loro pigmalione, le t.A.T.u., tra discutibili film usciti a distanza di anni dalla realizzazione (il quasi biopic You and I di un poco ispirato Roland Joffé), avevano perso l’appeal. Nel 2011 si sciolsero e a tutt’oggi, anche se si vocifera di una reunion quest’anno, il loro clamore è dato solo dalle dichiarazioni poco Lgbtq di Julia Volkova: «Non vorrei mai un figlio omosessuale», detto però in maniera meno cortese.

TUTTA L’ATTENZIONE
Gli anni Novanta hanno focalizzato l’attenzione del mondo sulla musica pop ucraina, qualcosa di mai accaduto in precedenza. Tutto questo nasceva dal Chervona Ruta Festival, una kermesse canora che si tenne per la prima volta a Chernivtsi nel 1989. Alla fine degli anni Ottanta si riteneva ancora che soltanto il rock cantato in inglese avrebbe avuto mercato, ma il successo di questo evento riuscì definitamente a imporre la musica in lingua ucraina a livello internazionale. Tra i gruppi musicali che sono venuti alla ribalta è impossibile non ricordare i Komu Vnyz, una miscela di stili gotico e industrial, combinati con i testi di antiche leggende popolari. Musica da combattimento, dolce e spietata, con un ritmo ipnotico, dark e rock epico, la loro produzione è segnata da grandi canzoni che ricordano come sonorità i Rammstein. «Camminando sogni/Come le ciglia di una prostituta/Come una corda nel collo» recita spietata la loro Lira per poi rivolgersi alla propria terra «Ucraina fiori di ciliegio, piogge abbondanti» in un’elegia che unisce la poesia nazionalista di Taras Shevchenko con gli echi di guerra non dissimile da quella attuale. Da quel 1989 la musica ucraina ha conosciuto una ventata di freschezza insperata: i Green Grey, il gruppo di trip hop più popolare del paese, sono stati la prima band locale sponsorizzata e notata dalla Pepsi. Alla fine degli anni Novanta il cantante pop più gettonato tra gli adolescenti era Yurko Yurchenko, un artista capace di creare il sold out con i suoi concerti, con un grado di fanatismo da essere paragonato ai Beatles.
Nel 2020 il cantante ha firmato insieme a Maksym Kryvtsov una canzone per il film Nashi Kotyky (Lethal Kittens) di Volodymyr Tykhyy, una satira antimilitarista molto divertente. La sua Zhovtyi Skotch però passa inosservata, non diverte, non punge come il film che commenta e tutto si ferma a un compitino appena appena grazioso, al di sotto della fama del suo autore.
Negli ultimi anni, l’industria musicale ucraina poi ha ritrovato una nuova linfa vitale, esplodendo in un coro di produzioni che hanno riscosso un certo clamore, sulla scia di una legge che ha imposto una percentuale di canzoni e trasmissioni in lingua autoctona. Pop e rock sono indubbiamente fra i generi più ascoltati: i The Hardkiss, per esempio, sono stati premiati come migliore rock band ucraina del 2017, e gli Odyn v kanoe sono tra i gruppi più importanti di musica indie. Uno degli esempi più classici rimane, comunque, quello virato verso il punk degli Okean Elzy, nati a Leopoli nel 1994, un successo che ha continuato a riempire stadi e palazzetti.
Il nome più iconico però del pop moderno è senza dubbio Tina Karol che incendiò il palco dell’Eurovision 2006 con la scatenata I Am Your Queen, arrivando settima ma ottenendo risultati straordinari di vendita. La cantante, diventata un simbolo di impegno civile, ha cantato per il contingente militare presente a Bagdad e Al-Kut (Iraq) e si è impegnata come portavoce per la lotta contro l’Aids. Di questi giorni sono le sue parole toccanti rivolte al popolo russo: «I miei genitori ora sono in Ucraina, fuggiti da Kiev. Come una volta mia nonna ebrea fuggiva dai nazisti, oggi mio padre ha pianto e mi ha detto: “Mia madre scappava così”. Questo è il nuovo fascismo. Insorgete, siate liberi».

MELODIA SCATENATA
Elementi folkloristici hanno contribuito a una rinascita nella moderna musica pop ucraina. Melodie popolari, ritmi e passi di danza hutsuli sono stati utilizzati da Ruslana Stepanivna Lyzycko, vincitrice dell’Eurovision Song Contest 2004 con Wild Dances, nella versione originale Dyki Tantsi, un testo semplice su una melodia scatenata e una coreografia di grande impatto scenico. La cantante ha grinta, una voce incredibile e la canzone è un piccolo gioiello pop dance che difficilmente si dimentica.
Di grande successo, ma molto più disimpegnate e commerciali, sono invece le Via Gra, un complesso pop dance che ha cambiato spesso componenti, ben 19, facendo fruttare al suo manager Konstantin Meladze, un compositore russo-georgiano, qualcosa come 6 milioni di copie non solo nel mondo russofono ma anche in Israele e in Giappone. Da questo gruppo musicale è partita, per esempio Svetlana Loboda, diventata poi, nel 2009, rappresentante ucraina all’Eurovision. Il nome Via Gra è un gioco di parole: non solo un’allusione al farmaco Viagra, ma anche una sorta di firma che racchiude i cognomi delle componenti originali della prima formazione. Tra le loro canzoni più famose la provocatoria Kisses diventata poi una hit internazionale.
L’Ucraina non ha avuto un film come Brat, ma recentemente Bitva za Sevastopol, da noi Resistance-La battaglia di Sebastopoli, un film del 2015 sulla figura di Lyudmila Pavlichenko, tra le più famose donne cecchino della storia sovietica, ha acceso l’attenzione su una cinematografia ruggente ma in ombra. Grazie all’intensa interpretazione di Yuliya Peresild e alle musiche di Hervé Jamet, intense, liriche e struggenti, il film è tra le più belle sorprese degli ultimi anni, mai troppo retorico anche in un genere, il biopic bellico, che santifica eroi e assassini.

NB: Per facilitare la lettura, per alcuni titoli dei brani citati si è scelto di dare direttamente la traduzione in italiano.