Nel centenario appena trascorso dello scoppio della prima guerra mondiale ovunque si sono fatti i conti con la drammatica eredità di quegli anni, su cui l’attore australiano Russel Crowe basa il suo debutto alla regia – The Water Diviner – portando sullo schermo l’evento che coinvolse direttamente il suo paese: la campagna di Gallipoli. Il film, tratto dal romanzo omonimo di Meaghan Wilson-Anastasios, da oggi in sala, ha però inizio a guerra già conclusa: i tre figli dell’agricoltore e rabdomante australiano Joshua Connor (lo stesso Crowe) sono caduti sul campo di battaglia, e i loro corpi si trovano ancora da qualche parte nelle trincee del lontano impero Ottomano. L’ispirazione per questa vicenda viene all’autrice, anch’essa esordiente, attraverso il marito, poi sceneggiatore del film, che si imbatte in una lettera del colonnello incaricato di seppellire i caduti di Gallipoli dopo la guerra e che fa riferimento ad un uomo giunto sin dall’Australia per trovare la tomba del figlio.

Quando la moglie si suicida per la disperazione, Joshua parte infatti alla volta dell’attuale Turchia per trovare i tre figli e seppellirli nella terra natia. Ad Istanbul verranno in suo aiuto un’avvenente albergatrice, Aysha (l’ex Bond girl Olga Kurylenko), e suo figlio Orhan, mentre nel campo di battaglia nei Dardanelli riceverà l’inatteso appoggio dell’ex maggiore di quelle stesse truppe responsabili della morte dei suoi figli, Hasan. A differenza di Gallipoli – Gli anni spezzati di Peter Weir, del 1981, in cui la guerra forniva il pretesto per il percorso di formazione dei protagonisti; qui lo è per il percorso interiore di un padre che è pronto a sfidare qualsiasi avversità per dare degna sepoltura ai figli, senza disdegnare la possibilità di trovare di nuovo l’amore.

Il nobile intento di questo novello Antigone al maschile, o la riflessione sulla pietas che a guerra finita unisce persone in precedenza sui fronti opposti, non poteva infatti certo bastare ad un film fermamente intenzionato a rispettare tutti i cliché possibili del polpettone strappalacrime, dai flashback illustrativi dell’amore reciproco dei tre figli e del padre per loro alla non tanto incredibile scoperta – rivelata infatti già dal trailer – che uno potrebbe essere ancora vivo, perché altrimenti la posta in gioco non sarebbe sufficiente. E infatti, quando Joshua Connor utilizza le sue capacità divinatorie per trovare i cadaveri sepolti dei suoi ragazzi piuttosto che l’acqua, ne vengono riesumati solo due, cosa che fa nascere in lui la speranza che il più grande, Arthur, si trovi ancora prigioniero da qualche parte, e che innesca la seconda e ben più avventurosa ricerca del film nel cuore dell’Anatolia.

Tralasciando l’altrettanto prevedibile interesse amoroso del vedovo australiano per la turca ribelle dai modi occidentali, The Water Diviner prosegue dunque cercando anche di fare un affresco degli albori della rivoluzione guidata da Ataturk che portò alla nascita della Repubblica turca ed alla dissoluzione dell’Impero Ottomano, in cui il protagonista si trova puntualmente invischiato, con quel tempismo tipico di questo genere di film. Se la debolezza e la banalità della trama non possono però essere imputate interamente all’«esordiente» Crowe, a lui va la piena responsabilità delle immagini da cartolina delle terre selvagge dell’Australia e dell’altrettanto sconfinata Anatolia, nonché dei luoghi più turistici di Istanbul, che il Joshua Connor interpretato dall’attore australiano non manca di visitare per offrire allo spettatore suggestive vedute della Moschea Blu e simili. In definitiva il film si offre al pubblico soprattutto in qualità di ottimo esempio di come una storia toccante, possa venire irrimediabilmente rovinata.