La precisione, l’autoironia e la generosità della presentazione a Roma del lavoro di Andrea Fraser sono stati inversamente proporzionali all’esile diffusione nel sensibilizzare e diffondere l’importanza di questa Lectio Magistralis al Macro Asilo. Ci si chiede se la notizia della presenza della Fraser in città, artista e teorica tra le più importanti degli ultimi 30 anni, abbia raggiunto gli studenti nelle accademie d’arte e nelle facoltà ed anche gli agitatori di Scomodo. I contenuti della Lectio di Fraser, teorica performer della critica istituzionale, sono fondanti delle modalità con cui si è istituito il Macro Asilo, si è persa così una grande chance di aprire alla città un confronto sulla critica istituzionale dei Musei e le gerarchie finanziarie e politiche che li sostengono e di ragionare sulle condizioni del loro avvenire, si sarebbe potuto inaugurare un serio dialogo con questa Lectio che nonostante gli sparutissimi astanti, è magistralmente durata 110 minuti. Uno spreco di risorse economiche ed intellettuali. Abbiamo incontrato l’artista e teorica per una conversazione.

Cosa è successo alla nozione di sell out ? Un termine fondamentale che proviene dalle contro culture tutte dai beatniks ai punk rockers ai ravers, chiederlo a te è un’occasione particolare perché ne hai fatto prima un emblema da combattere poi lo stesso da mantenere in termini critici con una posizione d’artista parte del sistema. Negli anni hai mostrato una notevole luciditá in merito.

Una domanda che mi viene fatta di frequente, come faccio a criticare le istituzioni dal momento che ne faccio parte, di fatto è solamente stando dentro una serie di relazioni in un contesto specifico che ci si può effettivamente adoperare per criticarlo e sortire un impatto, non lo si può cambiare dall’esterno tantomeno determinare un impatto efficace se non si investe con la propria partecipazione e posizione.

Andrea Fraser

La controcultura ce la fa ad esistere oggi, in che modo si determina?

Non ne sono sicura, sono molto distante adesso da quello che potrebbe essere controcultura. Credo però che esistano dei gruppi di controcultura nella rete internazionale queer e femminista che dalla fine degli anni 90 in poi hanno formato delle comunità. Controcultura non è solo la specifica manifestazione culturale sovversiva ma la capacità di creare una comunità autonoma che abbia una sua economia interna se vuoi e che non abbia l’ansia di essere riconosciuta o di doversi affermare su internet, sui media, o nel mondo dell’arte. Questa è controcultura per me oggi, e credo che esista e non ne sappiamo niente perché se ne fossimo a conoscenza probabilmente non sarebbe tale!

Si stanno tenendo sotto il radar, stanno facendo un buon lavoro! Lavorare da dentro e sviluppare una sorta di green economy delle relazioni e dei sostegni da rendere disponibili è basilare.

Si se un’artista o un produttore culturale oggi vuole sfidare il sistema dominante e le sue istituzioni deve pensare di creare delle istituzioni alternative e delle strutture che ambiscano a riconsiderare e redistribuire le risorse per tutti noi, non ci si posiziona radicalmente solo facendo dei gesti o solo producendo rappresentazioni per grandi mostre internazionali.

La tua capacità di interpretare ruoli e di assumere quegli stessi ruoli nella quotidianità segna un’alta tenuta del flusso tra rappresentazione, valore e produzione. Un flusso teoretico in continua negoziazione.

Ho cominciato ad usare la performance pensando di appropriarmi di funzioni, ruoli, testi e poi voci. Nel contesto dell’arte sono una performer piuttosto tradizionale ho delle capacità tecniche e preparo dei testi, non sono una body artist che si muove nello spazio. Uso il termine enactment per sottolineare la mia scelta di investigare i modi anche compulsivi ed ossessivi che ci fanno comportare in un modo piuttosto che in un altro dentro le istituzioni, nelle relazioni interpersonali, come membri di gruppi. Nella performance queste pulsioni diventano conscie, in questo sono stata influenzata molto dalla psicanalisi, dalla critica femminista, da filosofi come Foucault e Bourdieu. In effetti reputo che la tecnica della performance sia una versione conscia dei comportamenti peformativi inconsci che abbiamo nel quotidiano. Quando mi approprio di ruoli che non sono i miei come in ‘Museum Highlights’ (1989) lo faccio usando un’altra persona per riflettere sul mio di ruolo e sulle mie posizioni, come fosse un contenitore di parti di me e del mio inconscio che non vedo sempre chiaramente. La performance è per me mettere in atto anche la relazione con altre persone e contesti come nel caso di ‘Men on the Line: Men Committed to Feminism, KPFK 1972’(2012) dove interpreto 4 uomini che nel 1972 parlano in diretta radiofonica di donne e femminismo. Questo lavoro fu costruito su invito di Emi Fontana che curò ‘Trylogy’ un progetto di performances con Mike Kelley, Vaginal Davies e me ispirato allo storico Woman’s Building di Los Angeles fondato nel 1973 da Judy Chicago, Arlene Raven e Sheila Levrant e credo anche Myriam Shapiro ne facesse parte. Era un’istituzione molto importante accoglieva donne da tutto il mondo che cercavano di rieducare loro stesse e mettere al centro le loro esperienze. Nel 2014 per la mostra ‘Prospects’ a New Orleans ho scelto per un enactment le audizioni pubbliche tenutesi ad un consiglio comunale nel 1993 riguardo l’integrazione di alcuni club del carnevale ancora tra loro segregati. Ho interpretato una ventina di persone da uomini e donne afro americani, a latinos a ebrei ad italiani ognuno con i propri modi di parlare. Per tanto tempo fino a ‘Official Welcome’ (2002) le mie performances erano scritte e piene di citazioni ma suscitavano troppo il senso della parodia attivando una distanza che non cercavo, anzi. In ‘Official Welcome’ ho pianto, davvero, mentre gli astanti ridevano pensando all’interpretazione di me stessa che piangeva alla cerimonia di premiazione. In arte riusciamo a riconoscere ciò che investiamo in, da ciò che ci investe di un lavoro, una performance? Da qui ho riflettuto molto sul senso della perdita d’aspirazione, sul dolore che partecipare alla scena dell’arte contemporanea genera, o sul fatto che spesso continuiamo a comportarci come se fosse solo l’investimento di qualcun altro, come se le nostre emozioni ne rimangano fuori.

Davvero! Un approccio al contrario di quanto facevate con il gruppo V-Girls.

Con Le V Girls visto che eravamo giovanissime all’inizio degli anni 90 volevamo conquistarci la credibilità quindi la parodia del sistema era totale e per noi era perfetta. Dopo anni di lavoro subentra un certo senso di legittimità nel parlare e nel generare contesti ed anche nel negoziare l’ansia prodotta da questa legittimità che si deve affermare anche con autorità che si percepiscano come dominanti.

Ti ritrovi a giocare con la tua di autorità?

Si e no, la metto in gioco quando faccio parte di gruppi. La ricopro formalmente come professore e preside di facoltà e poi c’è l’autorità percepita come artista conosciuta o come donna che invecchia. Per me c’è una sfida parallela come artista che si occupa di critica istituzionale che sta nel fatto di come costruire e mettere in atto un’altra autorità artistica e intellettuale che non sia una che semplicemente reitera il modello maschile, e che si occupi di un altro genere di successo. Il successo del mercato non corrisponde ai miei valori ed alle mie politiche così come il successo fondato sul mero spettacolo in competizione alle biennali. La mia politica culturale e la mia critica artistica pretende che io crei i miei di criteri del successo e che li sviluppi, capitolare sarebbe quindi sottostare a criteri di valutazione che corrispondono a valori secondo i quali non voglio essere valutata. Ed è dura, è complicato anche solo definirli questi valori e metterli in una prospettiva critica. Come anche definire il successo per il mio lavoro e mantenere questa posizione mentre siamo attraversati da sentimenti di svalutazione, ansia, e tenere a bada l’invidia e la voglia di competizione per gli artisti che ottengono il successo del mercato. C’è un aforisma che dico sempre ai miei studenti che recita: un buon artista ha successo, un grande artista ridefinisce cosa sia il successo. Ed è questo che voglio essere un artista che definisce il proprio successo!

Facendo parte di una commissione, di un comitato scientifico di un’istituzione è possibile estendere questi valori agli altri membri e quindi cambiare le condizioni di lavoro e coinvolgimento per altri artisti? Come si attiva W.A.G.E. nelle istituzioni?

Sono nella commissione di W.A.G.E. da cinque anni, l’obiettivo principale è di promuovere una distribuzione equa dei sostegni e dei fondi per gli artisti, l’impatto delle sue campagne è visibile, ormai sono quasi 75 le organizzazioni e istituzioni che sono state certificate per una buona pratica, anche le istituzioni più grandi hanno cominciato a fare attenzione a queste eque distribuzioni e ad onorare i compensi degli artisti. Infatti uno dei maggiori risultati è che W.A.G.E. fornisce agli artisti giovani la capacità di contrattazione ed uno standard ufficiale dei compensi a cui far riferimento. La cosa positiva dell’organizzazione è che oltre ad avere dei minimi ha anche dei massimi, un’artista non può essere pagato più di un tot che corrisponda alla media degli stipendi dei lavoratori a tempo pieno della stessa istituzione con cui lavora, visto che nei musei di grandi dimensioni alcuni artisti non vengono pagati affatto mentre altri di successo possono ottenere quello che vogliono e magari la maggior parte dei lavoratori sono interinali.

Questo è una prospettiva molto lucida di una scala di valori sani a cui far riferimento. Cosa ne pensi dell’opera ‘Barca Nostra’ esposta alla biennale di Venezia?

Mi viene da pensare ai costi e alle risorse spese per questo gesto artistico, inevitabilmente penso che si sarebbero potuti spendere per gli immigrati ed i rifugiati. Quando leggo gli articoli la storia è incentrata sull’artista non sugli immigrati. L’opera on riflette granché sulle condizioni con cui è stata allestita ed esibita nella grande ricca Europa e sulle condizioni di partecipazione di tutti noi alla polarizzazione economica che determina questa catastrofe umanitaria, non costruisce strutture che abbiano un impatto su queste condizioni.

È tuttavia possibile che l’arte oggi abbia un impatto tangibile a livello sociale oltre quello percettivo?

Ci sono tre modi in cui l’arte può avere un impatto politico, uno è interpersonale ed è l’impatto che avviene nell’esperienza di un individuo che eventualmente produce un processo intellettuale che può dare la possibilità di vedere se stessi in modo diverso, per esempio. Un altro è con interventi che entrano in altri sistemi e strutture soprattutto mediatiche e che creano degli spazi pubblici di interferenza. Poi c’è l’impatto che un’opera o un artista può avere nel modo dell’arte in questo senso la posizione che si costruisce come artista può creare degli effetti a livello politico ed economico nelle istituzioni che operano in arte. La cosa positiva dell’arte come istituzione è che ci si può impegnare nella critica dell’istituzione stessa non c’è bisogno di uscirne ed i cambiamenti possono essere evidenti.