Ci sono molti buoni motivi per i quali uno storico dell’arte dovrebbe decidere di non dedicarsi allo studio di Peter Paul Rubens (Siegen 1577-Anversa 1640). A iniziare dallo sterminato catalogo del pittore, nutrito di oltre millequattrocento dipinti, oggi disseminati in tutto il mondo. E poi c’è la sua produzione grafica, numericamente ancora più numerosa e generosamente conservata tra il Louvre, il British Museum, l’Albertina, oltre a mille altre istituzioni europee e nordamericane: dai disegni d’après alle rapide linee a carboncino per fissare un’idea, dalle sanguigne tonali e meditate ai sontuosi acquerelli di rappresentanza. Si tratta di una massa copiosissima di materiali, grazie ai quali si può mappare la febbrile attività di questo artista, che ideò grandi cicli decorativi e imponenti serie di arazzi, ma anche antiporte e apparati effimeri. E quando non operò da solo, amplificò la propria voce attraverso una bottega particolarmente florida al suo servizio.
Ma non finisce qui. C’è il Rubens diplomatico e il Rubens fratello devoto o buon padre di famiglia; c’è il Rubens mercante e il Rubens collezionista. C’è addirittura un Rubens ‘conoscitore’, che guarda e cannibalizza tutto il visibile artistico intorno a sé, dall’antichità al Rinascimento, dagli affreschi italiani alle tavole del Quattrocento fiammingo, lasciandone tracce inequivocabili nelle proprie creazioni. Tutto questo, infine, filtrato da una bibliografia che ritenere smisurata è riduttivo, considerando tutte le monografie, le raccolte epistolari e gli articoli scientifici dedicati al pittore di Anversa, intorno al quale si giocò anche la connoisseurship di fine Ottocento/primo Novecento (Longhi docet). Ricapitolando: decidere di approfondire anche solo un aspetto puntuale e minuscolo della vita e delle opere di questo artista significa sostanzialmente trovarsi davanti una montagna e sperare di riuscire a muoverla.
Al di là del libro di Michael Jaffè
È questa la premessa per comprendere l’importanza dell’operazione editoriale di Raffaella Morselli, intitolata Tra Fiandre e Italia Rubens 1600-1608 (Viella, pp. 348, euro 55,00): una raccolta di lettere, contratti, frammenti d’archivio e altre fonti antiche manoscritte e a stampa, relative al periodo in cui il pittore oltremontano transitò nella nostra penisola (e si recò per la prima volta anche in Spagna), ordinate cronologicamente (non secondo la data del documento, ma in base agli eventi da esso descritti), rese accessibili tanto in lingua originale, quanto (se necessario) in traduzione italiana, e tutte corredate di alcuni apparati essenziali ma pratici, quali un brevissimo abstract, la bibliografia specifica e l’identificazione delle persone citate nel testo. In altri termini, si tratta di un Regesto biografico-critico, come specificato nel sottotitolo del volume, che rappresenta un nuovo e assai utile strumento per addentrarsi nell’incredibile selva di notizie disponibili sulla maturazione di questo pittore, avvenuta oltre i confini della sua patria, dopo una prima formazione ad Anversa. Una selva, mai oggetto di un’indagine sistematica da parte degli studiosi italiani, per meglio comprendere i rapporti di Rubens con l’eredità artistica che incontrò a Mantova, Venezia, Genova, Firenze e Roma, al di là dell’ancora magistrale Rubens and Italy di Michael Jaffè (1977, in italiano Palombi 1984).
D’altra parte, dai nuovi intrecci di date e rotte geografiche emersi in questa ricerca (e perfettamente ricapitolati negli indici che corredano il volume) il dialogo dell’artista con l’Italia risalta ora in una nuova complessità, innanzitutto sociale. Quasi a voler restituire un avvincente Bildungsroman, la successione dei diversi documenti registra giorno dopo giorno la crescita di Rubens non solo come artista, ma anche come uomo pubblico: in grado di essere, come sottolinea l’autrice nel suo saggio d’apertura, libero e insieme cortigiano; devoto al duca di Mantova Vincenzo I Gonzaga, tanto quanto all’arciduca d’Austria Alberto VII d’Asburgo e alla sua consorte l’infanta Isabella; abilissimo nel conquistare le attenzioni di potenti ordini religiosi (come i Gesuiti o gli Oratoriani), così come nell’instaurare diplomatiche triangolazioni (ad esempio quella con il duca di Lerma), all’interno delle quali spendere all’occorrenza la carta dell’intendente d’arte, oltre a quella di artista tout court.
In questo ‘poema ideale’ alcuni personaggi tornano ad aiutare il giovane nella sua crescita, come il fratello Filippo, vero e proprio faro affettivo e ‘intellettuale’ di Pietro Paolo, oltre che trait d’union per intercettare il favore di eruditi e letterati europei. Oppure monsignor Giacomo Serra (poi cardinale) e con lui sullo sfondo un nutrito manipolo di parenti e amici genovesi e romani, legati tra loro da matrimoni, battesimi, collaborazioni politiche e passaparola su commissioni e acquisti di opere. E da una lettera all’altra le sorti del pittore sembrano finalmente dipanarsi ed approdare agli esiti artistici che ancora oggi ammiriamo tra Mantova e Roma. Primo tra tutti l’altare della Vallicella (1606-’08), con cui Rubens voltò pagina, decise di tornare a casa, forte ormai di una straordinaria esperienza europea, che resterà fondativa in lui per il resto della vita come un valore sovranazionale tanto estetico quanto politico.
Da Baglione a Bellori, fino a Lanzi
Mentre il Regesto corre sul filo del dettaglio biografico, dell’aneddotica famigliare e del cortocircuito affettivo, attestati da epistole e altri documenti personali incentrati sul pittore, all’interno di una più ampia cornice di eventi e personaggi dal respiro storico, il saggio di Cecilia Paolini accolto nel volume riflette, a pendant, sulle vite dedicate all’artista nella seconda metà del secolo, tra le quali spiccano quella di Joachim von Sandrart (1675) e il medaglione biografico in latino (accessibile ora nel volume anche in traduzione) redatto dal figlio dell’amato fratello Filippo una ventina di anni dopo la morte del pittore. L’indagine apre uno squarcio anche sulla ricezione italiana di Rubens nel corso del Seicento, da Giovanni Baglione (1642) a Giovan Pietro Bellori (1672) e altri, in quella che, per molti aspetti, appare una lenta evanescenza della sua fortuna critica, tradita in queste fonti dal meccanico rimbalzare di molte notizie da una all’altra biografia e dallo scarso investimento dei loro autori in nuove indagini.
Il ricordo della centralità raggiunta dall’artista sulla scena romana durante il primo decennio del Seicento (dato vibrante nella documentazione del Regesto) appare in questi testi del tutto sfumato. Rubens è già diventato per Bellori l’artista che ha preso dall’Italia, ma non ha restituito: un giudizio che echeggerà ancora dentro la Storia pittorica di Lanzi alla fine del Settecento, lasciando a tutt’oggi il compito a noi di capire fino in fondo il suo ruolo nel tanto sospirato Barocco italiano.