Lo scorso anno era in concorso al Festival di Cannes, la critica soprattutto francese era subito impazzita per il nuovo film di Arnaud Desplechin, regista cinefilo e raffinato che è dai suoi esordi nel cuore dei più attenti – e esigenti- fruitori di immagini nel mondo, e della stampa di tendenza d’oltralpe e internazionale. In Italia, anche se i suoi film sono stati presentati più volte alla Mostra del cinema di Venezia, Desplechin non ha mai avuto una presenza importante – come molti altri autori francesi della sua generazione e anche più giovani (che poi la questione si estenda a mezzo mondo dovrebbe portare a riflettere sulle «regole» che organizzano il nostro mercato…).

L’OCCASIONE per scoprirlo,è data dai Rendez-vous del cinema francese, manifestazione che alle origini era nata proprio con questo obiettivo, rivelare cioè al pubblico italiano autrici e autori nuovi, che col tempo ha cambiato un po’ fisionomia e finalità continuando comunque nella sua attività promozionale. Sarà infatti l’ultimo film di Desplechin, Roubaix, une lumière a aprire il 1 luglio la rassegna romana che quest’anno, spostata in avanti nel calendario a causa della pandemia, si svolgerà nell’arena del Nuovo Sacher, la sala di Nanni Moretti.

Ma che film è Roubaix, une lumiére con protagonisti Léa Seydoux, Roschdy Zem, Sarah Forestier – in sala il prossimo autunno? Un polar ambientato nella città del titolo, in cui il regista è nato e dove spesso sono tornate le narrazioni dei suoi film (Racconto di Natale, I miei giorni più belli, I fantasmi d’Ismael)costruite miscelando autobiografia e romanzesco. Qui però accade uno scarto, quasi l’affermazione di una «terza persona» che prende spazio a partire da un fatto di cronaca accaduto in Francia diversi anni fa, e che aveva avuto molta eco, l’omicidio di un’anziana signora del quale erano state accusate le vicine di casa – e gli interrogatori delle due donne erano stati filmati per essere poi montati in un documentario televisivo – Roubaix, commissariat central, affaires courantes di Mosco Boucault che lo stesso Desplechin ha dichiarato è stato di ispirazione per il film.

C’È UN ISPETTORE Daoud (Zem), e ci sono due giovani donne, Marie (Forestier) e Claude (Seydoux), il quartiere dove è avvenuto il fatto è povero, sporco, chi vi abita guarda con diffidenza i poliziotti. E tace. Almeno finché può. Le due ragazze sono sospette, si contraddicono, cambiano i fatti, una specialmente appare terrorizzata mentre l’altra, cioè Claude, è in apparenza la più forte. Ma chi era la vittima? E cosa lega queste giovani donne in un rapporto che appare amoroso e al tempo stesso di dipendenza e di sottomissione di una verso l’altra? Daoud è un tipo silenzioso, a differenza di molti colleghi preferisce farsi guidare dallo sguardo, dall’intuito, da una certa passione per l’umanità. Daoud/Desplechin dunque? E non perché è la sua prospettiva che il regista sceglie per comporre il racconto. Non solo almeno. C’è nel modo di indagare del personaggio – a sua volta riflesso in altri frammenti sfuggenti e personali di dolori, rotture familiari, appartenenza, identità – qualcosa che rimanda al gesto della messinscena, alla composizione di parola e immagine, di «narrazione» appunto, intimamente legate nell’opera del regista, anzi ogni volta quasi una «sfida» nella sua ricerca intorno al linguaggio, all’errore, alla suggestione di una possibilità che diviene evidenza quando trova la sua rappresentazione, nel momento in cui assume una forma visibile.

E SE IL REGISTA si chiede in che modo filmare gli interrogatori sottraendoli alla codificazione del genere, il personaggio prova a far uscire le parole dal silenzio per ricreare con esattezza il gesto. Ma non è questo che significa «fare un film» col tentativo di illuminare le zone oscure, quanto del vissuto rimane in ombra? Dal commissariato il film si apre così al mondo, apparso all’inizio nei dettagli di quella città del nord della Francia con alto tasso di crimini (una rissa, un tentativo di frode all’assicurazione, uno stupro, un incendio volontario). E la traiettoria investigativa – fino alla verità sul delitto – riesce di quella realtà disseminata in particolari a catturarne il sentimento, i conflitti, le discrepanze proprio perché il suo tragitto non è diretto. C’è il nostro tempo qui, e c’è la società presente, francese o europea, eppure non vuole essere un film «sociale» Roubaix, une lumière, la sua materia al contrario oscilla lungo diversi confini, si fa tragedia classica e allenamento alla comprensione. Arte di guardare il mondo, invenzione di cinema.