È possibile provare a contenere in un abbraccio le ferite di una città terremotata? Salvare dall’abisso del non ricordo vite rimaste solo in vecchie foto di cui qualcuno si è liberato? Diventare col corpo una strada malandata di Palermo, la partitura sghemba e rugosa dei suoi avvallamenti? La memoria finalmente ha quel che cercava, ha scritto Szymborska. Era poco più di due lune piene fa, e come ogni estate, con gli amici, camminavamo per Scicli, Sicilia cuore sud est. Da anni non smettiamo di desiderare quello straniante ritrovarci in un salotto settecentesco, lì dove finalmente si è appreso a custodire le luci di una storia dalle radici infinite. Ecco, ci avvolge l’eco di un mare inenarrabile, che solo l’arte di Guccione sa dire col colore, quindi l’ennesima fermata alla scalinata del palazzo del Comune, alias commissariato di Montalbano … Un tour per il museo del campanile, l’unico sopravvissuto al grande sisma del 1693, o invece per l’antica farmacia/museo? Entrambi forse, se sono tante le crepe, o «crettature» dell’anima da sanare. In fondo alla strada, mentre una band del luogo sparge le note dei Muse, Black Holes and Revelations, come sempre ci attendono le magnifiche volte del Quam. Quella sera si inaugura «Imaginary routes» di Rossana Taormina (visitabile fino al 20 settembre), come affacciarsi su paesaggi interiori a cielo aperto: siano per stoffa e frottage, disegni o collage, dimenticate carte nautiche o indimenticabili oggetti per foto d’epoca e ricamo, sprigionano lontane aure esistenziali non ancora sopite. Davvero una Carte du pays de la Tendre, mappa del paese della Tenerezza, come quella di Madaleine de Scudery, datata 1654, cui si richiama la curatrice Katiuscia Pompili, accogliendo Taormina, l’artista siciliana nata nella zona del Belice post-terremoto e da anni abitante a Palermo. Quella sera con lei ci incrociamo soltanto, promettendoci di riparlarne. Felice, mi racconta che sta per partire per il Massachusetts: l’invito, per una collettiva, l’occasione, quella per cercare un altro pezzo di storia della sua famiglia. Routes dunque, ma anche roots, radici appunto. Se dove pulsa baratro o mancanza, come ci rammenta la Poeta di quei luoghi, c’è stato amore.
I tuoi sono percorsi come cerchi nel mare della memoria.
La mostra abbraccia varie declinazioni della mia ricerca sulla memoria. Mi sono trovata davanti al fatto che i luoghi della mia infanzia non ci sono più. Sono nata a Partanna nel ‘72, 4 anni dopo il terremoto del Belice. È stato allora che i miei nonni hanno perso tutto. Ricordo che spesso, da loro a Santa Ninfa, mi portavano a vedere: «qui c’era la nostra casa». Era rimasta soltanto una scala, pochi gradini. Credo sia stato allora che un senso di mancanza ha cominciato a depositarsi in me. Della baraccopoli dove ho passato gli anni più belli (come avviene in Italia è rimasta in piedi a lungo, ma poi è stata distrutta), non c’è traccia. Ho realizzato di non avere più punti di riferimento, lasciato il lavoro (risorse umane in Telecom), e mi sono messa a cercare. Nel frattempo mi ero confrontata con il processo di erosione della memoria accaduto all’altra mia nonna. Così ho sentito forte il desiderio di creare un collegamento tra tutti i miei affetti e i luoghi della mia vita scomparsi.
Penso a «L’infanzia è un terremoto», la testimonianza di Carola Susani, catapultata, causa i genitori, architetti della ricostruzione, nei luoghi del Belice. Quando parlammo quella sera, mi ha toccato il fatto che le foto su cui lavori con ago e filo non siano foto di famiglia ma di sconosciuti, che ritrovi o che ti regalano. Cosa avviene in te nell’incontro con queste ombre di altre vite (mi sembra qualcosa che richiede un rispetto sottile), e come vivi il passaggio dalla dimensione personale a una più condivisa.
Cercare la memoria significa per me cercare un’espansione oltre l’autobiografia, aprire a un respiro collettivo. Sì, con le foto della mia famiglia non riuscirei a lavorare: devo avere una distanza. Invece quelle di persone sconosciute mi chiamano, sento la necessità di sottrarre all’oblio coloro di cui nessuno si ricorda più – perché se dai via le foto di qualcuno che ti era caro, significa che per te ormai non conta -. Con quelle che ricevo in dono è diverso, alcune mi dicono poco, ma quelle che scopro io mi chiedono di avere una identità uno spazio un tempo, di strapparle al nero e di «innaffiarle» di luce, di fare in modo che altri occhi le guardino di nuovo.
Come sei arrivata al lavoro di «ricamo» sulle foto?
Mia nonna era una ricamatrice bravissima. Non posso scordare i suoi disegni preparatori, penna blu su carta velina. Ha cercato di insegnarmi, poi però ha visto i risultati, e mi ha detto, niente, gioia, torna a disegnare. Così il ricamo a lungo è stato una presenza lontana. Questo finché non mi sono imbattuta in una foto di Poggioreale, un paese della provincia di Trapani, che subito dopo il terremoto del ’68 era stato abbandonato, congelato a quel momento. Lo stesso è accaduto a Salaparuta e in altri paesini. Mentre a Gibellina c’è stato il Cretto di Burri (un calco di cemento bianco a memento sulla città, ndr), e altre opere d’artisti, altrove non c’è stato nulla. Ecco, io guardavo la fotografia di Poggioreale e mi è tornato in mente il ricamo, ho avuto l’idea di un progetto tridimensionale (poi lì mai presentato), che prevedesse delle corde tese da un angolo all’altro del paese, come a tenere insieme la memoria. Avevo in mente Le città invisibili di Calvino: Ersilia, dove i fili che legavano gli abitanti gli uni agli altri cambiavano colore a seconda dei loro rapporti. Se erano troppo intricati, voleva dire che quei luoghi sarebbero stati abbandonati. Infine nel 2012, vicino a Modica, sono riuscita a farmi affidare un rudere da «ricucire», progetto che è diventato Elegie.
Non posso non pensare a Maria Lai, al suo a Legarsi alla montagna, a quel nastro azzurro tra le case di Ulassai in Sardegna, e alla sua mostra bellissima vista lo scorso anno al Musma di Matera. Per lei il rapporto con la matericità del filo è essenziale. Per te come arriva a toccare le foto? Perché il filo bianco? Come una sorta di aura della persona. In particolare sono stata ipnotizzata dalla foto delle 4 donne «sospese». Hai scoperto qualcosa su di loro?
Da Elegie in poi mi è venuto naturale iniziare a usare ago e filo sulla bidimensionalità delle foto. Il bianco per me è il colore della memoria, ma anche dell’atemporalità. Ricamando cerco connessioni, provo a sentire quelle persone, che cosa pensavano in quel momento. Un tempo c’erano tipologie di foto molto codificate: del matrimonio, la foto di classe. Predominava il ritratto ufficiale. Io invece cerco altro, la foto venuta male, non in posa, da non esporre. Di quelle donne so soltanto che erano di Cracovia: mentre lavoravo a quella foto, pensavo a me e alle mie zie.
Tornando a Calvino, di fatto sappiamo che anche quando sono troppo raggrumati e frenanti, i rapporti non sempre vengono abbandonati …
Sì, è così, a volte vedo foreste di fili, che legano intrappolano. Alcune foto di bambini ebrei che poi sono morti mi chiamano come a cancellare loro gli occhi con ago e filo. Alcune mi trasmettono un fuoricampo di violenza che mi atterrisce. È come se ci fosse in me un istinto a sottrarli alla dimenticanza.
Nell’idea di Burri avrebbero dovuto essere gli stessi abitanti di Gibellina a prendersi cura del Cretto e a proteggerlo dal tempo. (In questo senso, il suo stato di abbandono, oltre che alla solita incuria italiana, può forse essere ricondotto a una difficoltà a relazionarsi con la memoria del trauma). Se la libertà va partorita ogni giorno, quanto è importante la manutenzione della memoria, quanto è faticosa e quanto allevia?
La manutenzione dei ricordi è una necessità, da un lato dolorosa, da un lato tranquillizzante, come prendersi cura delle proprie piante. Tracce di un tempo che c’è stato e va festeggiato, dunque anche un piacere. Io non ho visto la mia casa crollare, ma conosco il clima solidale del post terremoto. La gente aveva capito che le cose ce le possono portare via ma i rapporti umani no. C’era, nonostante i disagi, una grande felicità, un aiutarsi disinteressato, oggi assai raro, e noi bambini eravamo accolti in ogni casa. Ecco, questo passato si ripropone ogni giorno nel mio cuore. La manutenzione dei ricordi la consiglierei a tutti.
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