«E si dice per ischerzo, ma non senza ragione di verità, che bisogna soddisfare ai desiderii de’ fanciulli per non trovargli morti dietro alle porte», scrive Leopardi in una pagina del suo Zibaldone, nel settembre 1823. A quell’appunto fanno eco questi versi di Rosita Copioli: «Quante volte sono morta dietro quella porta. / Nemmeno oggi oso pensare a quel dolore. / Nessuno mi avrebbe raccolto. / Nessuno mi avrebbe cercato». È un passaggio tratto dall’ultima raccolta di Copioli, I fanciulli dietro alle porte (Vallecchi Firenze, pp. 187, € 16,00), che sceglie così di esporre anche in titolo la stessa insegna leopardiana. Il poeta di Recanati è in effetti molto presente qui dentro: dai ricordi precisi dei Canti, come per la luna «solinga, eterna peregrina» che cita il Canto notturno, a un Leopardi assorbito e reso linfa naturale (come quando si individua nel «tempo» più lontano l’unico capace di essere «grande» e anzi «immenso»). Proprio il desiderio, che compare nella frase zibaldoniana trascritta sopra, è il demone che anima questa scrittura: un impulso antico, di cui si percepisce la violenza («Mai avrei pensato di tornare all’amore violento», dice non a caso la prima lirica del libro), e che ricorda un poco quella Saffo che Copioli ha tradotto (l’amore «onnipotente» si ricorda del famoso frammento in cui eros è «creatura invincibile» e squassa il cuore dell’io?).

Il fuoco amoroso – e il fuoco è mot-clé della prima sezione – surriscalda la dizione, la arroventa fino a forgiare un verso che può anche distendersi e scegliere a tratti la misura del poemetto (come il lungo, raffinato intaglio di Prometeo Lucifero Francesco), ma che non di rado tende a frangersi («non darò canti, ma versi spezzati»), puntando deciso alla verticalità: «Oh, mater! Dove sono io, / dove cielo, dove luna, / dove angeli di luce, io, io, / Mater! Mare sepolto oltre / Milano ebbra di sangue e cemento». Di questa voce vigorosamente assertiva, capace di profetizzare o addirittura di porre le proprie condizioni alla realtà («Uragano scaténati, riporta il tormento / della vita che risorge»), colpisce soprattutto l’attitudine a far convivere mito e storia (in fondo, per Copioli, il poeta ha ancora il potere di legiferare, può persino invertire o confondere la freccia del tempo: «La storia non ha orologi / anzi non esiste»). Così, in uno dei pezzi più belli dell’intero volume, 1993 Dalmazia bianca, si incontrano e si fondano le bombe su Sarajevo e Pentesilea, il ponte della Drina e il Cantico dei Cantici, Achille e la strage di Srebrenica. Non è poi molto lo spazio riservato, in questa poesia, all’esperienza, al racconto, alla biografia (a meno di non trasformare anche questa in ‘mito di fondazione’, come in Arco di Giano, San Giovanni). Eppure resta, intatta, la sensazione di una parola esatta quanto autentica, vera: «Scrivevo un tempo solo mossa dal dolore; / non più, hai rovesciato la mia vita. Del tanto dolore che mi hai dato / (…) conta solo la gioia, e questa / segna da tempo il tempo».