«L’Africa è talmente inondata dalle immagini proveniente dall’occidente che non sappiamo più in cosa identificarci» dice Rosine Mbakam, regista cresciuta in Camerun fino a 27 anni, per poi trasferirsi in Belgio nel 2007 per studiare cinema. Con il suo documentario Les deux visage d’une femme bamiléké – in programma oggi allo Spasimo di Palermo nell’ambito della dodicesima edizione del Sole Luna Doc Film Festival – Mbakam cerca proprio di offrire alle donne del suo paese un’ immagine di sé che nasce dall’incontro, dalla possibilità di raccontarsi. «La cosa più importante per me era che si vedessero a vicenda, che potessero guardare le immagini di sé e riconoscere la loro bellezza».

 

 

Il documentario racconta infatti il confronto fra la regista camerunense e la madre sessantottenne, a cui Mbakam – ora madre a sua volta – fa visita con il figlio piccolo. Il padre è morto ormai da tempo, mentre lei continua a lavorare in un banco del mercato.

 

 

Dopo aver vissuto per anni lontano da casa, l’universo femminile del Camerun in cui la regista è cresciuta le appare sotto una nuova luce : la forza e la resistenza delle donne che come sua madre l’hanno cresciuta, l’esistenza di un mondo femminile fatto di solidarietà e condivisione. Gli uomini sono del tutto assenti: appaiono solo nei racconti delle protagoniste, che guidano Rosine Mbakam nella riscoperta della propria cultura.

 

 

Com’è nata l’esigenza di tornare in Camerun per girare questo film?
La distanza fra me e la cultura in cui sono cresciuta mi ha suscitato delle domande su ciò che mi era stato trasmesso, sul mio posto in quanto donna nella comunità, sulle mie scelte e i miei desideri. Nel 2012, quando è nato mio figlio, volevo potergli trasmettere ciò che io avevo ricevuto, ma che per lui era inaccessibile a causa della distanza. Quando ha compiuto qualche mese ho proposto al mio compagno di circonciderlo, e lui mi ha chiesto cosa significasse questo per me. Mi sono resa conto che non sapevo la risposta, che non conoscevo il senso di un rituale che avevo sempre visto praticare intorno a me. Così è nato il desiderio di fare a mia madre delle domande, di andare a in cerca di sentimenti sepolti.

 

 

Il documentario racconta un mondo esclusivamente femminile.
È stata una scelta naturale perché durante la mia infanzia non ho avuto molti contatti con gli uomini a eccezione di mio padre. La trasmissione delle tradizioni avviene per via femminile, e in Africa alcuni luoghi appartengono esclusivamente alle donne, che fanno tutto, ma di loro si sa molto poco. Volevo sentire la loro vera voce, non mi interessava l’immagine di sé che la tradizione vuole che diano. Volevo parlare con le donne della generazione di mia madre della loro infanzia, dei loro matrimoni, del loro punto di vista su una società che le ignora e le trascura.

 

 

Il confronto evidenzia anche delle differenze.
Ricordo che quando ero piccola mia madre attribuiva a mio padre molte cose che in realtà aveva fatto lei. C’è un desiderio nelle donne della sua generazione di restare nell’ombra. Io volevo mostrare invece il loro volto di combattenti, ciò che sono state in grado di costruire. Specialmente perché tutto questo sta scomparendo con la mia generazione.
Sua madre, che dice di essere stata in una sala cinematografica solo una volta, definisce il cinema come «la rappresentazione di qualcosa che conosciamo molto bene o che non vedremo mai».
Sono rimasta molto impressionata da questa definizione, non me la aspettavo. La trovo molto bella, riassume davvero la natura del cinema. Spesso mi viene chiesto da dove nasce il mio desiderio di fare cinema, dato che sono cresciuta in una baraccopoli con dei genitori analfabeti. La risposta è che sono stata molto fortunata ad avere dei genitori che facevano parte di una realtà molto dura, ma che sognavano un’altra vita per i loro figli. Il mio cinema è ispirato sia da questa realtà, la mia cultura, che dal sogno di un altrove.