Era stato previsto ed è successo: a Fuocoammare è stato preferito il documentario di Ezra Edelman sul «processo del secolo»: OJ: Made in America. Ma Gianfranco Rosi, alla vigilia della cerimonia degli Oscar, aveva già detto di non considerare la sua eventuale sconfitta «una delusione»: «Tutto questo è già un successo», aveva sottolineato riferendosi alla sua presenza a Los Angeles – insieme al medico di Lampedusa Pietro Bartolo – come candidato all’Oscar per il miglior documentario.

Una foto lo ritrae insieme a tutti i colleghi candidati insieme a lui, una cinquina che quest’anno si è distinta per il suo contenuto politico: oltre alla tragedia dei migranti raccontata da Rosi c’è la divisione razziale che non ha mai smesso di affliggere gli Stati uniti dei film di Ava DuVernay – The 13th – e di Raoul Peck, che con I Am Not Your Negro è passato quest’anno dalla Berlinale da cui Rosi era uscito vincitore esattamente un anno fa. «Sono felicissimo di questo meraviglioso viaggio durato un anno – ha detto il regista di Focoammare dopo la cerimonia – è stato davvero incredibile. Il film documentario ha finalmente assunto un valore universale».

La rilevanza di questa forma cinematografica è stata sottolineata all’indomani dei premi anche dal presidente di Istituto Luce Cinecittà Roberto Cicutto: «Speriamo che il cinema documentario venga trattato con il rispetto e l’attenzione che merita non soltanto dal pubblico ma anche dai produttori e distributori e soprattutto dall’esercizio cinematografico».

Il Ministro dei Beni Culturali Franceschini, congratulandosi con Alessandro Gregorazzi e Giorgio Gregorini – Oscar al miglior trucco per Suicide Squad – e per la candidatura di Fuocoammare ha invece sottolineato il merito di: «Aver portato al centro della scena, con intelligenza e sensibilità, il tema globale della migrazione».