Curata da Vania Gransinigh e ospitata fino al 17 giugno presso Casa Cavazzini, sede del Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Udine, James Rosenquist. Work on paper indaga attraverso una quarantina di opere (multipli, collages e disegni) il rapporto dell’artista americano con il medium carta, raccontando in particolare la sua attenzione alle potenzialità espressive e compositive delle tecniche di stampa. Il costante impiego del disegno anche in forma illustrativa, del colore a tinte piatte o con campiture miscelate, nonché il ricorso alla sovrapposizione di differenti layer di immagini, di chiara derivazione tipografica, sono le modalità più frequentemente adottate da Rosenquist, sin dagli esordi.
Come la maggior parte degli artisti oop d’oltreoceano a lui contemporanei – Jim Dine, Roy Lichtenstein, Claes Oldenbourg, Andy Warhol , Tom Wesselmann – egli inizia a lavorare nel campo della pubblicità e, in particolare, nella cartellonistica. All’inizio degli anni cinquanta Rosenquist (era nato nel 1933) vive dipingendo silos e serbatoi di benzina nelle praterie dell’Iowa, del Wisconsin e del North Dakota. Poco più che ventenne si trasferisce allora a New York dove, dopo una borsa di studio e un corso alla Art Students League, lavora per un’agenzia pubblicitaria dipingendo cartelloni autostradali e insegne commerciali. È un lavoro fisicamente molto impegnativo, da svolgere su scale e ponteggi, e frequentemente deve ripetere il medesimo soggetto (un prodotto, il volto di un attore) in più luoghi, a Brooklyn, Manhattan o nel Queens. Progressivamente cresce la sua stima e gli vengono affidati spazi sempre più importanti e di grandi dimensioni, come Times Square, ma, a seguito della morte di due colleghi caduti da un’impalcatura, decide di abbandonare la pubblicità per darsi all’arte.
Rosenquist prese allora in affitto lo studio che era stato prima di Agnes Martin in un edificio in cui, in quegli anni, lavorano anche altri colleghi, come Robert Indiana, Ellsworth Kelly e Jack Youngerman, che da lì a qualche anno diverranno celebri. Sono proprio di quegli anni iniziali Spaghetti & Grass e Dusting Off Roses, che aprono la mostra, in cui l’artista fraziona la visione combinando immagini varie di differente provenienza popular (giornali, fumetto e televisione) alla ricerca di associazioni inattese e accostamenti visivi sorprendenti. È lo stesso Rosenquist a raccontare come quelle figure originate dall’immaginario della società dei consumi progressivamente diventino soggetto: «Quando dipingevo cartelloni pubblicitari non pensavo che ciò che dipingevo avesse realmente un significato. Consideravo quelle delle immagini usa-e-getta, dato che io stesso ci dipingevo sopra più volte. Pensavo al massimo di poterle usare per creare delle composizioni nuove, astratte. Che avrei cioè impiegato quelle immagini di poco conto come spunto per opere di Espressionismo Astratto, ma niente di più. E invece erano qualcosa di grande».
In questo processo viene totalmente a perdersi ogni finalità rappresentativa mimetica – vedi Horse Blinders o Roll Down (1965-66), un dettaglio di paraocchi da cavallo o un ritaglio di portiera d’automobile –, e le immagini banali e ripetitive della società di massa vengono impiegate dopo averle purificate da ogni significazione: ridotte al grado zero restituiscono in maniera impersonale e stereotipa la realtà quotidiana, in forma ideologicamente opposta al lirismo intimista dell’Espressionismo Astratto di De Kooning, Rothko o Pollock.
Litografie successive come Night Smoke e Off the Continental Divide, realizzate tra anni sessanta e settanta, ma anche le meravigliose Electrical Nymphs on Non-Objective Ground o Night Transition del decennio successivo, sono caratterizzate da superfici spezzate, frammentazione visiva della composizione, e dall’impiego di numerose matrici (da dodici fino al vorticoso numero di ventinove colori) in cui appare evidente come le cura tecnica fosse ben al di là della prassi corrente. Infatti «Rosenquist poté attingere ad altissimi livelli qualitativi – scrive Gransinigh – e produrre esiti altrettanto elevati in termini di innovazione creativa perché fu supportato da forti legami di amicizia e di collaborazione con gli stampatori».
Pur continuando a usare alcuni stilemi (fiori, dettagli anatomici, vortici di colore, segni di pennellate), dalla seconda metà degli anni ottanta l’artista americano perde interesse per la figurazione, in favore di impetuosi accostamenti cromatici. Diventa così, progressivamente, un pittore aniconico attento a studiare l’abbacinante presenza della tecnologia elettronica e i fenomeni della fisica del cosmo: a esemplificarlo, in mostra, la serie Speed of light, di liquida e ubriacante bellezza. Ed è lo stesso artista a spiegare che «la cultura popular non è esemplificata da un’immagine statica, quanto invece da una sequenza di immagini che ricordano lo sviluppo di un incendio».
Le opere dell’ultimo periodo – è il caso di collages come Source for Alternative Time Lines – sono caratterizzate dalla fluidità e da una tensione formale che talvolta sfiora il parossismo visivo, benché inaspettatamente dotate di un sapiente bilanciamento: per Rosenquist (morto nel 2017 a 84 anni) il senso della misura è sempre stato un alleato prezioso su cui far conto.