Non solo le idee possono essere opere d’arte, ma anche gli ideali. Manifesto è una video installazione progettata e realizzata da Julian Rosefeldt (1965). Prodotta nel 2015, è stata esposta per la prima volta lo stesso anno a Melbourne, presso l’Australian Centre for the Moving Image, e ha quindi viaggiato per altre sedi, prima di venire convertita in un lungometraggio di novantotto minuti. Questa versione monocanale ha partecipato a varie rassegne cinematografiche, tra cui il Sundance e il Milano Film Festival del 2017, ed è stata poi distribuita nelle sale. Ora (e fino al 5 maggio) Manifesto è in mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma, di nuovo nella sua forma primitiva, senza dubbio la migliore per apprezzarne a pieno le qualità.
Rosefeldt descrive l’opera come un «manifesto di manifesti», un ragionamento sulla prassi novecentesca della dichiarazione d’intenti artistici resa da uno o più autori (pittori, scultori, poeti, danzatori, architetti, cineasti), in autonomia o in rappresentanza di gruppi o tendenze d’avanguardia. Già dal concept s’intuisce quanto Rosefeldt ami l’ambiguità e la contraddizione, perché il suo è un omaggio a una tradizione di oggetti nati per contestare le tradizioni. Del resto, il manifesto è un oggetto di natura vaga, non propriamente assimilabile alla poesia ma neanche al discorso vincolante. Per giunta, circola in genere come testo scritto, ma non di rado è pensato per essere declamato pubblicamente, prim’ancora che stampato. Infine, a rigor di termini, «manifesto» dovrebbe designare qualcosa di palese, chiaro ed evidente, mentre nell’opera di Rosefeldt nulla è semplicemente ciò che appare.
Manifesto si compone di tredici video, proiettati su altrettanti schermi. Di questi video, dodici sono quadri narrativi della durata di circa dieci minuti e mezzo l’uno, in ognuno dei quali un personaggio, ogni volta diverso ma sempre incarnato dalla stessa attrice (Cate Blanchett), recita un differente monologo costruito con frasi prese da varie fonti e liberamente assemblate. A questi quadri si aggiunge un filmato introduttivo, un «prologo», più breve e quasi astratto, nel quale una voce fuori campo accompagna la ripresa, rallentata e sfocata, di una miccia che brucia. I testi da cui sono tratti i monologhi risalgono a periodi differenti del XX secolo, tra il 1909 e il 2004 – con la singola, significativa eccezione del Manifesto del Partito Comunista (1848) –, e nessuno dei video tenta mai di restituire nemmeno per traslato il loro milieu originario. Anzi, ogni scena si svolge in contesti apparentemente incongrui rispetto all’argomento trattato dal suo specifico monologo, e quelli che dovrebbero essere gli enunciati di un programma artistico acquistano di volta in volta connotazioni inattese: di preghiera, confessione, farneticazione, e così via.
Come da sua abitudine, Rosefeldt gioca con i cliché, e in particolare con le nozioni di autenticità e originalità: «tutto in fondo è finzione; nulla di ciò che viviamo è originale, tutto nasce da ciò che abbiamo visto, sentito, studiato e digerito». Ogni tessera di Manifesto denota una straordinaria, quasi leziosa, cura dell’aspetto visivo, e ovunque nell’opera sono sparsi riferimenti cinefili; tuttavia, nessuna scena sviluppa una trama e ritrae piuttosto una situazione che ha per protagonista una figura stereotipata e suscita sempre un’impressione di déjà-vu.
Ciò, da un lato, dirotta il senso complessivo dell’opera su un binario ironico. Dall’altro, interroga l’attualità delle proposizioni artistiche, perché ogni frammento di testo, pur avulso dal proprio ambito, mischiato arbitrariamente ad altri e infilato come un ready-made dentro uno scenario improbabile, mantiene una potenza assertiva che scaturisce dalla visionarietà e dalla vena di critica sociale inerente ai manifesti.
Eppure, se l’operazione di Rosefeldt si esaurisse in un carosello di citazionismo postmoderno, condito di sottile umorismo e impreziosito dalle astuzie di una performer da Oscar, non varrebbe la pena parlarne. Invece, attraverso l’esperienza diretta della sua configurazione multimediale, l’opera schiude ben altra ricchezza. Nell’allestimento della mostra romana, Manifesto nega lo spazio architettonico in cui s’inserisce, annulla la magniloquenza del salone centrale del Palazzo per collocare i tredici schermi con relativi diffusori audio in una stanza oscurata, eretta per l’occasione. Questo glorioso isolamento serve a definire un ambiente sonoro nel quale non c’è modo di concentrarsi davvero su un’unica proiezione. Il sovrapporsi di suoni e voci provenienti dai video genera un disordine pieno di vitalità, una fastidiosa «cacofonia» che però a un certo punto si risolve per qualche istante in un’armonia estatica. I tredici personaggi guardano fisso in camera e, seguitando a recitare il loro copione, intonano tutti una stessa cantilena, ognuno su una nota differente. È «la voce dell’arte che parla alla società», spiega Rosefeldt. È l’attimo paradossale in cui infrangendo la «quarta parete» la finzione tocca uno strato di verità più profonda.
Ogni video è un loop, senza un chiaro inizio né una vera fine; e l’insieme delle proiezioni è a sua volta un circuito chiuso e continuo, innescato dalla miccia che incessantemente si riaccende. E nella riproduzione simultanea e reiterata dei materiali, il tempo smette di essere lineare, collassa su se stesso. La frase su cui s’impernia il prologo, «Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria» (Marx, Engels), si riconnette idealmente a una citazione contenuta nel tredicesimo e ultimo segmento: «Conosco solo istanti, ed eternità che sono come istanti e forme che appaiono con forza infinita, e poi ‘si sciolgono nell’aria’» (Lebbeus Woods).
La presenza di Blanchett accresce lo straniamento. Il suo status di diva del cinema mainstream è fondamentale non soltanto perché assicura al lavoro l’interesse di un pubblico più vasto di quello delle gallerie d’arte, ma anche perché aggiunge un ulteriore risvolto metafilmico, per cui, al di là dell’innegabilmente sublime prestazione attoriale, ogni incarnazione risulta una maschera ideologica, falsa nella sua perfezione. Più l’attrice cambia volto, voce, costume, atteggiamento e cornice, più si trasfigura nell’inquietante agente di un grande processo di sussunzione e consumo della Storia. Gli ideali (cioè i manifesti) delle passate generazioni diventano oggetti su cui tornare quanto si vuole, ad libitum, ma sempre e solo come pillole di un’estetica congelata; diventano strumenti di un’ironia feticista.
Rosefeldt sottolinea che di solito il manifesto è un rito di passaggio, il cui presupposto è la ricerca di un’identità. «Un manifesto spesso rappresenta la voce di una giovane generazione, che si confronta con un mondo attraverso la polemica e il dissenso. Gli storici dell’arte tendono a considerare con devozione e rispetto qualunque cosa creata o scritta dagli artisti, quasi che l’intenzione di questi ultimi fosse fin da subito che il loro lavoro divenisse parte della storia dell’arte». In realtà, quando hanno pubblicato i loro testi, Kandinskij, Newman, Sturtevant, Jarmusch… non erano esattamente «giovanissimi, appena usciti di casa». Ma il punto è che queste voci, talvolta provocatorie e utopiche in proporzione inversa all’insicurezza che le anima, sono in effetti la testimonianza di un rapporto vivo, ancorché conflittuale o fallimentare, tra quelle generazioni e la Storia. Oggi questo tipo di rapporto è ancora possibile?
In questa chiave, Manifesto non è tanto o soltanto un brillante esempio d’incorporazione di materiali che un tempo sembravano godere di un potenziale sovversivo, quanto un terrificante monito sul processo di programmazione e modellazione preventiva che la cultura capitalista compie sui desideri, le aspirazioni e le speranze.