«Non c’è immaginazione rivoluzionaria senza organizzazione transnazionale». Le parole di un militante antirazzista greco riassumono il significato del decimo meeting della Transnational Social Strike Platform (Tss), ospitato a Bologna da ∫connessioni precarie. Dal 27 al 29 ottobre circa 200 attiviste e attivisti di 20 paesi, non solo europei, sono stati protagonisti di workshop e assemblee su riproduzione sociale, ambiente, migranti e sulle conseguenze politiche e sociali della guerra. Non è stato solo uno scambio di esperienze parziali di lotta o resistenza: muovendo dalla loro ricchezza e dalle difficoltà e differenze delle condizioni materiali e istituzionali in cui avvengono, il meeting ha consolidato le basi dell’organizzazione transnazionale dei movimenti nella convinzione che solo confrontandosi con questo livello si possono ottenere risultati tangibili anche sul terreno locale o nazionale.

La domanda «a che punto siamo?» ha guidato il meeting verso l’individuazione di percorsi di comunicazione e organizzazione capaci di superare la frammentazione attuale delle lotte di precarie e operai, donne e migranti, sindacati e movimenti ecologisti. Chi ha partecipato ha riconosciuto che la capacità transnazionale è necessaria quando l’organizzazione delle lotte per i salari si misura coi processi di finanziarizzazione e i movimenti del lavoro migrante; è inaggirabile quando le conseguenze della guerra superano i territori in cui è combattuta e producono divisioni che ostacolano la possibilità di lottare insieme; è essenziale quando queste divisioni sono il terreno fertile in cui proliferano politiche di destra che irreggimentano il comando sul lavoro attraverso la frammentazione sociale e la produzione di gerarchie razziste e patriarcali.

L’imperativo «rompere le barriere» – territoriali, sociali, identitarie – ha guidato gli interventi sulle condizioni patriarcali e razziste di riproduzione delle nostre vite e sulla prospettiva di un conflitto climatico di classe. Sul terreno delle migrazioni rompere le barriere è tanto più necessario in quanto i migranti sono già un soggetto transnazionale e «la guerra si muove dall’Ucraina e dalla Palestina all’Europa creando le condizioni per criminalizzarli» e governare la loro libertà in movimento. Come affermato dai richiedenti asilo del Centro Mattei di Bologna, l’organizzazione autonoma e il supporto concreto delle lotte delle e dei migranti sono il primo compito di qualsiasi politica transnazionale. Di fronte al costante ritorno del patriarcato – di cui hanno dato conto, tra le altre, le attiviste di Coordinadora 8M (Cile), Non Una di Meno, Collecti.e.f 8 maars (Bruxelles), Teritorio Doméstico (Madrid), Kyrgsoc (Kirghizistan), Feminist Antiwar Resistance (Russia),  Assemblea donne del Coordinamento Migranti, Solidarity Network (Georgia) – lo sciopero femminista è sempre più difficile da organizzare. Eppure, «è uno dei pochi processi che ha prodotto una connessione tra soggetti diversi, prima di tutto donne e migranti, e ha messo in tensione le strutture organizzative esistenti forzando l’iniziativa sindacale e impedendo l’appropriazione del femminismo da parte del discorso liberale». Un potenziale che il Tss si impegna a mantenere attivo verso il 25 novembre e l’8 marzo, mettendo al centro il rifiuto della guerra per opporsi all’insopportabile normalizzazione della violenza che produce.

La guerra sta ridefinendo anche l’ambiente della transizione verde. Questa consapevolezza ha unito attivisti, sindacati e collettivi come Ums Ganze!, Anametrisi, Plan C, Climate Class Conflict-Italy, Interventionistische Linke, Inicjatywa Pracownicza, Allt åt alla, Solidaire, l’Academy for Democratic Modernity curda e molti altri. La transizione verde si configura ormai come «un programma contro lavoratrici e lavoratori ed è la leva per una geopolitica aggressiva» e non esistono soluzioni semplici: «La transizione verde non è omogenea e richiede una critica e pratiche capaci di tenere conto delle differenze e di mostrare quali sono i suoi effetti su salari e sulle condizioni di vita e di lavoro». Le lotte per la giustizia climatica devono evitare qualsiasi specialismo nella consapevolezza della centralità transnazionale dell’iniziativa ecologista, soprattutto nell’epoca della terza guerra mondiale scatenata dall’invasione russa dell’Ucraina.

Proprio la logica della guerra è stata al centro di un’appassionata e partecipatissima plenaria della Permanent Assembly Against the War (Paaw), introdotta da Issa Amro (Youth Against Settlement), collegato dalla West Bank, Yeheli Cialic Sofia Orr (Mesarvot), da Israele, Vadym Yakovlev, attivista ucraino che ha disertato la guerra, e Lee Chun Fung, artista e attivista indipendente in collegamento da Hong Kong. Issa ha ribadito che i palestinesi sono «di fronte alla scelta impossibile tra fuggire – senza che vi sia la reale possibilità di farlo – e rimanere, rischiando di morire o con la certezza di essere condannati a essere cittadini di seconda classe». Sofia, diciottenne israeliana renitente alla leva, ha rivendicato la necessità di mantenere chiara la distinzione tra oppressi e oppressori, rifiutando di prendere parte alla vendetta e al genocidio portati avanti dallo Stato di Israele, mentre Vadym ha denunciato l’arruolamento dei movimenti sociali ucraini sotto la bandiera del nazionalismo. Lee ha aperto un canale di comunicazione tra la Paaw e l’Est asiatico, dove la guerra è presente come orizzonte che schiaccia gli spazi di immaginazione e azione politica.

Sul terreno della guerra, la Paaw ha rimarcato la necessità di una «politica transnazionale di pace». Nonostante gli sforzi degli stati e dei loro esperti, i fronti non sono omogenei e stabili ma costantemente attraversati dalla pretesa di libertà e dalle lotte di donne, lavoratrici e lavoratori, migranti che, non solo in Medio Oriente e in Ucraina, rifiutano di pagare il prezzo di un conflitto bellico che alimenta razzismo, violenza e sfruttamento. Guardare la guerra dalla parte di chi la subisce e non solo da quella di chi la fa è il presupposto di una politica transnazionale di pace in grado di riconoscere i punti ciechi del movimento pacifista: sostenere senza remore la resistenza e la lotta dei palestinesi non significa appoggiare i programmi confessionali di Hamas; riconoscere l’invasione russa dell’Ucraina non significa appoggiare i programmi neoliberali di Zelensky.

Consapevole della complessità delle sfide poste da migrazioni, femminismo, ambientalismo e guerra, il Tss affronta da tempo il dilemma dell’organizzazione transnazionale delle lotte. Di fronte alla catastrofe delle soluzioni organizzative tradizionali, bisogna trovare il modo per non farsi travolgere dall’eterogeneità delle condizioni locali e nazionali. Questo problema è stato formulato con chiarezza da Interventionistische Linke: «A lungo siamo riusciti a mobilitare, anche se non a organizzarci. Ora abbiamo anche difficoltà a mobilitarci, per questo organizzarci è ancora più urgente. Il problema non è tanto moltiplicare le iniziative pratiche, ma dotarci di letture condivise per poter agire sul lungo termine, accumulare forza, consolidare l’organizzazione stessa. Ciò è possibile solo se il piano transnazionale diventa parte integrante della nostra iniziativa». La scelta di una piattaforma, spazio mobile ma non indeterminato grazie al quale movimenti diversi possono comunicare e condividere immaginazione organizzativa, è la risposta a questa condizione.